I numeri, i numeri. Conta solo questo. E così, in base ai numeri degli abitanti di un comune, adesso in Italia viene stabilito per legge “dove è bello vivere”, luoghi cioè dove “si realizzano economie di scala” e “ottimizzazione delle risorse”. Che importa se si cancella il Comune, se il sindaco da salutare (o criticare) per strada non c’è più, se chi ti governa diventa un anonimo tecnico, lontano decine e decine di km da dove vive il cittadino, magari anziano e impossibilitato ad avvicinarlo perché in campagna o in alta collina non è così semplice spostarsi.
Per ottimizzare le risorse è stata presentata alla Camera l’11 novembre scorso la proposta di legge con primo firmatario Emanuele Lodolini (Pd), e come secondo Davide Zoggia. Si tratta di una modifica del testo unico del dl 18 agosto 2000 n.267. Con il ddl Lodolini (qui) si stabilisce che il limite minimo perché possa esistere un comune è di 5000 abitanti. Tutte quelle amministrazioni che non rientrano in questo limite devono fondersi con altre. Punto e basta. E se non lo fanno, le Regioni devono obbligarli, e se queste a sua volta “disobbediscono” avranno la decurtazione del 50 % dei trasferimenti statali in loro favore. Insomma, o ti fondi, o ti taglio i fondi.
Mentre il ddl Lodolini va avanti, la proposta di legge presentata da Ermete Realacci sempre del Pd per la valorizzazione dei piccoli comuni sotto i 5mila comuni giace alla Camera da almeno due anni.
Intanto, la proposta Lodolini sta provocando una vera e propria rivolta dal basso. La logica del governo Renzi è questa: ottimizzazione delle risorse. E può essere giusta, dicono i sindaci ribelli, ma la realtà va vista in tutte le sue sfaccettature.
I piccoli comuni non ci stanno. Lo slogan è: sì alle unioni, a razionalizzare i servizi, sì alle convenzioni, ma le fusioni, le cancellazioni dei consigli comunali, no grazie. E’ già partita una petizione su Change.org, mentre una pagina facebook raccoglie tutte le voci contrarie di sindaci e consigli comunali. La protesta è partita a macchia di leopardo, ma interessa sulla carta il 70 per cento dei comuni italiani, che sono 8006. La media italiana è di 7500 abitanti per comune e dal fronte della protesta si fa notare come in Europa la situazione sia ancora più frammentata: in Francia esistono 36mila comuni con 1700 abitanti di media, in Spagna poco più di 8mila con 5mila abitanti e in Germania 11mila con 7mila abitanti di media.
In Toscana il movimento di protesta è particolarmente vivace. Tredici sindaci della Provincia di Siena hanno firmato un manifesto per “aiutare i piccoli comuni a vivere, non a morire”. Sono i comuni di Cetona, Radicofani, Chiusdino, Chianciano Terme, Casole d’Elsa, Castiglione d’Orcia, Monteriggioni, Piancastagnaio, Pienza, Radicondoli, San Casciano dei Bagni, San Gimignano e Trequanda. Sono tutti primi cittadini del Pd, eccetto tre che sono stati eletti nelle liste civiche. Si sono mossi anche comuni più grandi, come San Gimignano perché l’orientamento della Toscana, come è emerso da un convegno recente a Montecatini è quello di arrivare a una media di abitanti per comune tra i 10mila e i 20mila abitanti. Inoltre, preoccupa anche il fatto che maggiori punteggi nei bandi regionali per le opere pubbliche avrebbero i comuni risultato di fusioni rispetto agli altri.
In Toscana il casus belli è stato il referendum che si è tenuto a Cutigliano e Abetone: pur con risultati contrapposti (un comune ha votato sì e l’altro no), a gennaio il consiglio regionale ha approvato la fusione dei due comuni. E l’intenzione della Regione è quella di tagliare ancora, visto che a fine legislatura, ha detto il presidente del consiglio regionale Giani, si arriverà da 278 a 250 comuni. La Regione spinge per le fusioni anche grazie a incentivi per i comuni che si fondono.
Ma cosa c’è di sbagliato nella fusione?
“Sia ben chiaro io non sono contro le aggregazioni quando vanno a migliorare i servizi, non sono contro le unioni, o contro le convenzioni”, afferma uno dei tredici sindaci che hanno firmato il manifesto in difesa dei piccoli comuni. Emiliano Bravi è un quarantenne, sindaco dal 2009 e consigliere comunale dal 2004, “una certa esperienza di amministrazione ce l’ho”, dice. E’ sindaco di Radicondoli, un paese al confine tra la provincia di Siena e quella di Pisa, la sede di un importante festival di teatro, il luogo dove viveva Luciano Berio. Insomma, un paradiso in mezzo a boschi e colline incontaminate. “Quello che non ci meritiamo è la scomparsa della rappresentanza politica di una comunità. Viene imposta dall’alto una norma basata sui numeri degli abitanti. Ma chi è sotto i 5mila abitanti o vive in zone rurali non ha diritto ad avere un rapresentante?”, si chiede il sindaco Bravi. “Se l’aggregazione serve migliorare la qualità della vita, ben venga, ma deve partire dal basso e con la volontà della comunità”, sottolinea ancora una volta. Radicondoli ha circa mille abitanti, un’estensione di 150 chilometri quadrati, un bilancio con 10 milioni di avanzo, spiega il sindaco e nemmeno mille abitanti. “Non guardiamo solo ai numeri, guardiamo ad altro. Mi rammarico che il mio partito, il Pd, sottovaluti l’esistenza di questi territori”, continua Emiliano Bravi. Che sottolinea come sia importante la presenza di rappresentanti nei territori, proprio per evitare la disgregazione e l’abbandono. Ma la fusione potrebbe essere un modo per risparmiare risorse? “Io prendo 900 euro netti al mese e mi sono messo in aspettativa, un assessore ne prende 50, un consigliere comunale zero. I risparmi si fanno sull’ottimizzazione dei servizi”. Invece così si rischia di perdere la partecipazione democratica. “Lo sa? Quando manca l’acqua, o c’è un problema tecnico, qui chiamano il sindaco. La gente va a votare, alle ultime elezioni ha votato l’84% della popolazione. E nel sindaco si vede l’ultimo baluardo. Se cancellano anche questo…”.