A colloquio con Dario Fo, che ci parla del suo ultimo romanzo, Razza di zingaro, e dell'opera teatrale che sta scrivendo, i Menecmi, non quelli di Plauto, i suoi

Dario Fo è sempre stato un artista spiazzante: quando nel 1962 presenta Canzonissima ma non risparmia sketch provocatori, e dopo essere stato censurato abbandona il programma; quando nel 1970 in Morte accidentale di un anarchico si ispira al caso di Pinelli ricevendo decine di denunce; quando nel 1977 torna in Tv in prima serata con Mistero buffo raccontando il Vangelo in modo poco canonico.

E Dario Fo è spiazzante ancora oggi: quando entrando nella sua casa normale in un condominio normale in Corso di Porta Romana a Milano, troviamo la porta aperta, come se fossimo nella bottega di un artigiano che ci deve aggiustare una cinta e non di un premio Nobel, e dentro capiamo che è tutto vero, che è tutta creatività e ricerca allo stato puro, senza pause. Con poca vanità, con niente di appariscente ad arredare tra i tanti quadri; quando lo vediamo spettinato, ma vestito come in scena, mentre sposta le tele e le tavole, con la voce più afona e sofferente, un po’ infastidito dalla luce, con la fede al dito, guardando un suo nuovo dipinto, mentre saremmo lì per parlare del suo ultimo romanzo, Razza di zingaro, ma lui ha già lo sguardo orientato al futuro, alla sua nuova opera, in fase di scrittura, di cui ci vuole parlare in anteprima: i Menecmi, non di Plauto, i suoi.


 

Questo articolo continua sul n. 8 di Left in edicola dal 20 febbraio

 

SOMMARIO ACQUISTA