Colpito da una ribellione e dall’offensiva di movimenti armati fondamentalisti, il Mali sta tornando timidamente alla musica. Il festival “Acoustik”, a fine gennaio, ha rotto per pochi giorni il clima teso dello stato d’emergenza in vigore dagli attacchi del novembre 2015 all’Hotel Radisson, portando ritmo e poesia in un digiuno di note che, nella capitale Bamako, dura dal 2012. In versione ridotta a causa dell’instabilità che attraversa sempre di più il sud est del Paese, nelle scorse settimane anche il “Festival sur le Niger” di Sègou ha affollato la riva del grande fiume, mescolando rap impegnato a conferenze su pace e convivenza. Segnali di resistenza, in una regione che si auto rappresenta come il cuore musicale dell’Africa, forte di grandi vecchi come Ali Farka Touré, Salif Keita e Tinariwen e, fra le ultime generazioni, di virtuosi della kora come Toumani Diabate e Habib Koité e delle voci raffinate di Fatoumata Diawara e Rokia Traore. Proprio quest’ultima, abituata ormai a calcare i palcoscenici internazionali, è in Italia il 29 febbraio. Una data unica all’Auditorium di Roma, in cui presenta Né so, sesto album di una carriera quasi ventennale, uscito il 12 febbraio. Alla vigilia del concerto, la cantante, chitarrista e compositrice ci ha raccontato del suo impegno per un Mali in cui «la musica e la cultura possano offrire sogni ai giovani e battere il reclutamento dei gruppi fondamentalisti, che vivono dell’assenza della politica». Un obiettivo difficile, che si scontra con l’inedia dei governi locali e una «mancanza di comprensione da parte dell’Europa, troppo centrata su se stessa». A partire dalla cosiddetta crisi dei migranti, che attraversa sottile le parole del disco, iniziando dal titolo.
Né so in lingua bambara significa “a casa”, e l’omonima canzone ricorda i milioni di rifugiati costretti a lasciare «casa, abitudini e futuro, senza sapere quando potranno tornare». Vista dall’Africa, quella dei migranti è veramente una crisi?
L’Africa è sempre stata attraversata da migrazioni e ogni famiglia, ogni villaggio, ha qualcuno in esilio in Europa o in nord America, ma le dimensioni viste negli ultimi anni, almeno per quanto riguarda la parte occidentale, hanno qualcosa di straordinario. La guerra in Libia e poi in Mali e la distruzione seminata da Boko Haram hanno causato enormi spostamenti di popolazione e, in quanto accesso all’Europa, l’Africa è stata attraversata anche da rifugiati siriani, palestinesi, curdi. Se vogliamo parlare di crisi però, il cuore della crisi non è il movimento delle persone – come spesso si pensa in Europa – ma sono le persone stesse, i loro bisogni, la loro umanità allo sbando, che mette in crisi un sistema, quello delle frontiere, degli Stati nazionali, che non funziona più. Ho scritto Né so nel 2014, dopo aver visitato un campo per rifugiati maliani in Burkina Faso, senza sapere che sarebbe diventata sempre più attuale. Come “doppia cittadina”, africana e europea (l’artista ha studiato in Belgio, dove è tornata a vivere dal 2012, ndr), sono obbligata ad avere poi uno sguardo ampio e profondo, non mi accontento delle risposte preconfezionate di molti leader). […]
Questo articolo continua sul n. 9 di Left in edicola dal 27 febbraio