Presto l'economia della Cina potrebbe diventare "di mercato" secondo i parametri internazionali. Questo significherebbe l'eliminazione di molte delle barriere commerciali rimanenti. Per questo sindacati e associazioni industriali europee sono preoccupate. Così come Bruxelles, che al contempo cerca di portare a casa il Ttip

Il 15 febbraio scorso, a Bruxelles, è andata in scena una manifestazione piuttosto insolita. Mentre si ripristinano confini che si credevano ormai dimenticati, le associazioni di impresa e i sindacati europei hanno trovato un’inconsueta unità per rivendicare la protezione dei loro interessi dalla ‘concorrenza sleale cinese’. E, come non capita di frequente, la Commissione è apparsa sensibile alle richieste della parti sociali annunciando di voler ergersi a paladina dell’equità commerciale violata.
Cosa ha messo sul piede di guerra le imprese europee? Il detonatore è stato il probabile riconoscimento alla Cina dello status di ‘economia di mercato’ così come previsto dagli accordi che sancirono, nel 2001, l’ingresso cinese nel Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Un ingresso fortemente voluto da Stati Uniti ed Unione europea quando gli stessi intravedevano la possibilità di sfruttare il lavoro cinese a basso costo, delocalizzando lì le loro produzioni, o ambivano ad accaparrarsi una parte di quello che sarebbe diventato uno dei mercati più vasti del mondo.
Oggi, il riconoscimento di questo status alla Cina imporrebbe la rimozione, o la sensibile riduzione, dei dazi sulle importazioni provenienti dal Celeste Impero. Uno scenario da brividi per un’industria, quella europea, che continua ad arrancare da quando è esplosa la crisi nel 2008 e che teme di venire ulteriormente sommersa da un mare di beni e materie prime a prezzi stracciati. A Pechino, tuttavia, non la pensano così. ‘Pacta sunt servanda’ ha tuonato il portavoce del ministro degli esteri cinese Lu Kang.
A ritrovarsi nel Parco del Cinquantenario, sono stati i rappresentanti dell’industria dell’alluminio, delle parti auto, dei semiconduttori, del vetro, della ceramica, dei pannelli solari. I sindacati europei rappresentati dalla Ces e numerose Ong. I manifestanti hanno riportato con preoccupazione i risultati di uno studio dell’Economic Policy Institute di Washington. Lo studio prevede che, a seguito del riconoscimento, ci sarebbe un aumento dell’import di manufatti tra i 72 e i 143 miliardi di euro per anno, una riduzione del Pil europeo del 2% annuo ed una perdita di posti di lavoro che potrebbe raggiungere i 3.5 milioni di unità. La manifestazione ha ricevuto la solidarietà di quasi tutti i ministri dell’industria europei e segnali di condivisione da parte della Commissaria al commercio Malmstrom.
Finalmente un sussulto unitario dell’Europa, dunque? Un’Europa che si decide a tutelare l’occupazione ed a rivendicare il rispetto delle regole, a partire dal rispetto dei diritti dei lavoratori, nelle relazioni economiche internazionali? Ci sono molte ragioni per dubitarne. Al contrario, quanto sta avvenendo attorno a questa vicenda rivela la presenza di contraddizioni profonde in seno all’Europa. Rivela l’assenza di strategia e di coerenza nell’assumere scelte di politica economica. E rivela incongruenze con quanto i dati mostrano circa l’evoluzione delle relazioni economiche sino-europee.
I dati

Il commercio tra la Cina e UE ha visto un fortissimo incremento dal 2000 in poi. La Cina ha costruito il suo poderoso, e ben noto, surplus commerciale esportando beni, in larga parte ma non solo, ad elevata intensità di lavoro. L’Europa ha esportato ed esporta in Cina beni ad alta tecnologia e di alta gamma. Queste esportazioni hanno consentito, ad esempio, alla Germania di attenuare l’impatto della crisi sulle sue imprese dal 2008 in avanti (le esportazioni verso la Cina sono salite dal 3.1 al 5.4% sul totale dell’export tedesco nel periodo 2008-2015). La composizione dei flussi commerciali dalla Cina si è trasformata, nel tempo, in modo rilevante. L’incremento dell’export cinese è andato di pari passo con l’avanzamento tecnologico del paese. La politica del governo cinese ha consentito di beneficiare dell’ingresso dei capitali stranieri favorendo, al contempo, un costante trasferimento di tecnologia che ha arricchito e rafforzato le attività economiche locali. La crescita cinese si è dispiegata in un contesto di crescenti disuguaglianze, bassi salari e flussi migratori senza precedenti. Questo schema, tuttavia, è sembrato soddisfare vicendevolmente capitalisti europei e cinesi, almeno fino all’esplosione della crisi. Una soddisfazione che rendeva rumori di sottofondo le denunce delle condizioni di lavoro nella Repubblica Popolare.

Le contraddizioni

L’ingresso della Cina nel Wto ha rappresentato la possibilità, per le imprese europee, di realizzare profitti enormi producendo a basso costo in Cina e vendendo a prezzi occidentali in patria. L’immenso surplus commerciale cinese, brandito oggi come elemento probante per denunciare le slealtà cinesi ha coinciso con un altrettanto intensa accumulazione di profitti per le imprese occidentali. Una novità, tuttavia, emerge ed è forse proprio questa a preoccupare alcuni pezzi del capitalismo europeo. La forza, economica e tecnologica, delle imprese cinesi cresce rapidamente. E cresce anche la domanda interna, rendendo il paese asiatico sempre meno dipendente dall’occidente. La Cina, inoltre, si sta dimostrando abile nell’utilizzare uno strumento cruciale ma ormai pressoché sconosciuto in Europa: la politica industriale.
Ma le contraddizioni non sono finite qui. Gli strali lanciati da Bruxelles contro le slealtà cinesi stridono, da un lato, con quanto avviene all’interno di un’eurozona polarizzata tra Germania e paesi del Sud eternamente in crisi. Dall’altro, con il dibattito sull’accordo di libero scambio Europa-Usa, il TTIP.
Nel primo caso, fa effetto vedere come in prima fila nelle dimostrazioni vi siano i rappresentati dell’industria manifatturiera tedesca. Quella stessa industria che, grazie al contenimento del costo del lavoro in Germania e nei paesi dell’Est europeo, ha accumulato un surplus paragonabile, per dimensioni e velocità di accrescimento, a quello cinese. Accumulato, in particolare, nei confronti di paesi del sud Europa come l’Italia che, non sorprendentemente, han sperimentato un ridimensionamento della base produttiva. Proprio ciò che oggi l’Europa e la Germania vorrebbero scongiurare mantenendo i dazi contro le ‘slealtà cinesi’.
L’ultima contraddizione che è opportuno menzionare riguarda il TTIP, l’accordo che vorrebbe liberalizzare definitivamente gli scambi tra gli Stati Uniti e la Ue. Il TTIP è supportato dalle associazioni di impresa Ue e dalla Commissione. I principali argomenti a favore del Trattato rimandano alle supposte virtù salvifiche del libero mercato e alla possibilità di diffondere i benefici della libera concorrenza rimuovendo le barriere agli scambi internazionali. Esattamente gli stessi argomenti adotti quando l’ingresso cinese nel Wto era propagandato come ‘un’occasione storica da non perdere’. Ma c’è di più. Chi oggi si oppone all’approvazione del TTIP lo fa mettendo in luce i rischi a cui l’occupazione, la salute e l’ambiente europei verrebbero esposti se le rimanenti barriere al commercio transatlantico venissero abbattute. Preoccupazioni sostenute da autorevoli studi internazionali. In questo caso, però, le conseguenze economiche e sociali del TTIP non han destato la stessa preoccupazione nelle associazioni industriali e nella Commissione, differentemente da quanto sta accadendo rispetto alla ‘minaccia cinese’.
L’agire politico europeo è sempre più intriso di contraddizioni e l’attuale scontro con la Cina ne sta dando l’ennesima riprova. Se quel che si intende salvaguardare fossero realmente l’occupazione, le condizioni di lavoro e l’ambiente questo dovrebbe essere il faro guida di tutte le azioni politiche europee. Ad oggi questo faro sembra accendersi in modo fiacco e intermittente o, come in questo caso, per ragioni che paiono essere strumentali a specifici interessi economici più che a una visione strategica generale.

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L’evoluzione delle relazione economiche UE-Cina

L’Unione Europea e la Cina hanno delle strette relazioni economiche, con la Ue che è il principale partner commerciale del paese asiatico (429 miliardi di euro, il 13.4% del commercio con l’estero cinese). Per la Ue la Cina rappresenta invece il secondo partner dopo gli Stati Uniti con 428 milioni euro, il 12.5% del commercio estero europeo. Il commercio tra la Cina e l’Europa è aumentato dal 2008 al 2013, con la Ue che ha esportato, nel 2013, l’80% in più rispetto al 2009 e la Cina che ha visto, nel medesimo arco temporale, un aumento delle proprie esportazioni verso l’Europa del 30%. Il grafico che segue riporta il saldo commerciale europeo nei confronti della Cina, ovvero la differenza, in euro, tra esportazioni di beni e servizi verso la Cina ed importazioni dallo stesso paese verso l’Europa.

scambi commerciali Usa Ue

Fonte dati: elaborazione su dati Eurostat

La figura mostra il crescente approfondimento del deficit europeo nei confronti della Cina nel periodo 2006-2013. Questo dato, tuttavia, va considerato tenendo conto del fatto che nei dati lordi dell’import-export non è possibile identificare dove il valore aggiunto – ovvero il reddito vero e proprio che quei flussi hanno generato e che è legato alle diverse componenti costituenti un prodotto – viene geograficamente distribuito. Si pensi all’I-phone e a tutte le fasi di produzione, materiale ed immateriale, che vengono realizzate nei paesi occidentali prima di giungere in Cina per l’assemblaggio e la riesportazione verso i mercati del resto del mondo.

I dati dell’Ocse (Tiva-Database) mostrano come sul totale del reddito generato dalle esportazioni cinesi, in media, il 32% venga distribuito fuori dal paese asiatico. Il dato del settore dei beni legati all’elettronica (quello in cui vengono computate ed analizzate le esportazioni cinesi della catena del valore dell’I-phone) è, in questo senso, il più significativo: nel 1995 le il 74% dell’export lordo cinese rappresentava valore aggiunto distribuito all’estero; nel 2011 questo dato è sceso al 54%. Una misura del rafforzamento tecnologico della Cina di oggi.
I settori che hanno visto, nel periodo 2011-2014, un incremento sostanziale delle esportazioni europee verso la Cina sono stati i prodotti chimici (da 11.430 a 14.746 miliardi di euro) ed i manufatti legati all’industria dei trasporti (da 30.762 a 43.768 miliardi di euro). Tra le esportazioni cinesi l’incremento maggiore si è avuto nel settore dei macchinari (137.800 a 140.699 miliardi di euro), dei manufatti ottici e di precisione (7.373 a 9.049 miliardi di euro) e in quello delle calzature (9.690 a 10.260 miliardi di euro).
Di particolare interesse è la dinamica degli investimenti. Gli investimenti europei in Cina, spesso legati all’attività di multinazionali europee con controllate o partecipate operanti nella Repubblica Popolare, sono aumentati significativamente negli ultimi anni. I dati disponibili per gli anni 2011 e 2012 parlano, rispettivamente, di 20 e 15 miliardi di euro di investimenti diretti effettuati da imprese europee in Cina (Fonte dati: Eurostat e Tiva-Oecd).