Autore, polistrumentista, fonico. Dopo anni al servizio della crème della musica indipendente, Francesco Motta viene allo scoperto con La fine dei vent’anni, primo album solista. Testi nudi e crudi, e cinismo costruttivo

Scapigliato, giubbetto di pelle, accento toscano e l’aria da punk. Francesco Motta sta benissimo e, per farcelo sapere, ha deciso di incidere un disco. Dopo dieci anni in cui ha prestato il suo talento di polistrumentista alla crème della musica indipendente italiana, Motta viene allo scoperto con La fine dei vent’anni (Woodworm – Audioglobe), il suo album di esordio da solista. Per l’occasione si è messo nelle mani di Riccardo Sinigallia, autore e produttore dai più chiamato “re mida” e che abbiamo già visto all’opera con Tiromancino, Carboni, Gazzè. Ancora qualche settimana e Motta sarà in tour, partendo da Pisa l’8 aprile, passando per il Magnolia di Milano il 20 e il Quirinetta di Roma il 28. Ma per adesso è ancora a casa, nella Capitale. Ne approfittiamo per fare quattro chiacchiere con lui.
Motta, cos’è che finisce con i vent’anni?
L’adolescenza. La fine dell’adolescenza negli uomini avviene un pochino dopo (ride). Seriamente, a un certo punto mi sono reso conto che nelle canzoni ci vuole qualcosa da dire. Grazie a Riccardo (Sinigallia, ndr) sono riuscito a capire che anch’io avevo delle cose da dire e le ho dette.
E cosa credi di averci detto?
Che sto abbastanza bene (ride). Guarda che spesso è questa la cosa più difficile da dire: che si sta bene. Nelle canzoni è molto più facile dire quanto e come si sta male, ma io spero di esserci riuscito.
Che Riccardo Sinigallia ti sia stato vicino, nel disco, si sente eccome…
Sì, è vero. Mi è stato vicino in tutto, ma è stato anche molto rispettoso di quello che era mio, persino delle mie registrazioni fatte in casa. Il suo contributo è stato fondamentale, sia nei testi che nella produzione. Produrre un disco prevede anche un certo tipo di organizzazione e un punto di vista esterno, e secondo me lui è in assoluto il migliore in Italia, come autore e come produttore. Perciò direi che è stata una magia, ci siamo veramente scelti. Ci siamo annusati e scelti.
Lasciare più spazio ai testi ha significato un approccio più pacato in fase di composizione ed esecuzione musicale?
No. Io penso che siano soprattutto i testi a fare le canzoni. (Si ferma, pensa bene, e quantifica:) Per un 80 per cento, dài (dice come se tracciasse una linea per farci capire il peso)! Un accordo cambia a secondo del testo e viceversa, ma fa sempre riferimento al significante, alla parola. Io finora ero più avanti musicalmente, e adesso sentivo di dover superare lo scoglio testuale. Ci ho messo un bel po’… e non è stato affatto facile.

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Questo articolo continua sul n. 12 di Left in edicola dal 19 marzo

 

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