Questa intervista è comparsa sul numero 1 di Left del 2016. Allora si parlava dei combattenti stranieri dopo gli attentati di Parigi. Il discorso di Scott Atran, antropologo franco-americano che insegna a Oxford e Parigi e che ha intervistato decine di jihadisti in giro per il mondo.
Gli arresti a Bruxelles sono solo l’ultimo segnale di una presenza, quella dei cosiddetti foreign fighters occidentali, i combattenti stranieri, che anima gli incubi delle agenzie di intelligence d’Europa e mette in allarme la popolazione. Alcune migliaia di persone, nate e cresciute in Occidente, hanno scelto di mettere a rischio le proprie vite – o sacrificarle – per combattere per il Califfato, partendo per la guerra in Siria e Iraq o arruolandosi online e partecipando all’organizzazione di attacchi terroristici nelle capitali europee o negli Stati Uniti. Questa colonna di reclute pronte a dare tutto quel che hanno per una causa politico-religiosa è uno degli elementi che fa la forza di Daesh e sgomenta noi. «Tra i foreign fighters occidentali c’è una gamma ampia di percorsi che porta alla jihad. Certo, c’è una concentrazione di persone che viene dalle grandi periferie-ghetto urbane dell’Europa occidentale. In America un figlio di immigrati musulmani nel giro di una generazione è in media più ricco e ha studiato di più dei suoi genitori, questo non è più vero in Europa, dove a seconda del Paese, queste persone hanno da 5 a 19 possibilità in più di essere poveri e più si procede con le generazioni e più la situazione peggiora.
Negli Stati Uniti c’è un tessuto sociale che favorisce l’assorbimento e l’integrazione economica degli immigrati. Nella stessa popolazione carceraria di alcuni Paesi europei la componente musulmana è sovra-rappresentata, mentre negli States, la percentuale di musulmani dietro le sbarre è, come per gli ebrei, più bassa della percentuale totale di popolazione: ad esempio in Francia la popolazione è composta al 7-8% di musulmani ma il 70% dei carcerati è musulmano». A parlare è Scott Atran, antropologo franco-americano, professore a Oxford e Centre National de la Recherche Scientifique in Paris che da anni studia i combattenti musulmani ai quattro angoli del pianeta e che ha condotto decine di interviste con miliziani catturati in Siria e Iraq – o che hanno abbandonato il Califfato per delusione – e giovani europei finiti nei guai per avere collegamenti con reti terroristiche a Parigi, Londra, Barcellona. «Per questa underclass nella quale la gente sente di non avere una parte nella società, l’ISIS è attraente. “Mi sento come una transgender, non francese e nemmeno araba. Il Califfato è forse l’unico luogo in cui posso essere una musulmana con dignità” Ci ha detto una donna intervistata di recente.»
Non ci sono solo i giovani delle periferie, un problema di identità lo hanno in tanti. «Un altro gruppo che è attratto dall’ISIS sono i giovani brillanti che si sentono bloccate dalla società per una ragione qualsiasi, che magari legano alla loro provenienza o appartenenza religiosa e per questo covano rabbia e frustrazione».
Infine ci sono i piccoli criminali. «Tra questi abbiamo individuato con frequenza un aspetto interessante e paradossale: le persone che con maggior frequenza si offrono volontarie per le missioni suicide vengono da questo mondo, cosa che contraddice in qualche modo la teoria economica classica che sostiene che si finisce nella criminalità per marginalità o per costo opportunità. Qui invece arriva l’ISIS che chiede loro: «davvero volete fare i criminali?», la risposta è naturalmente no, queste persone preferirebbero essere membri a pieno titolo della società. E così lo Stato islamico offre redenzione e loro la cercano mettendo a disposizione l’interezza dei loro interessi, la loro vita».
Anche in Nord Africa, dove il reclutamento sembra essere in crescita, c’è una tipologia simile di giovani brillanti e frustrati dalla corruzione e dalla mancanza di opportunità. Qui però ci sono anche gli ex jihadisti locali – gli algerini, ad esempio.
Ciascuna esperienza e percorso viene usato dalla dirigenza del Califfato in maniera diversa: «Se i giovani europei, i piccoli criminali, le persone “deboli” caratterialmente perché vivono una fase di passaggio della loro vita – per ragioni anagrafiche o perché sono studenti che hanno lasciato la famiglia o magari la loro città vengono spedite direttamente al fronte o scelti per missioni suicide, nonostante non abbiano nessuna esperienza di guerra, i nordafricani esperti di combattimento li usano per organizzare – prosegue Atran, che sul tema di come articolare la contro-propaganda nei confronti di queste persone è stato ascoltato da una commissione del Congresso Usa ed ha relazionato davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu – L’uso delle risorse è il più razionale possibile: gli ingegneri elettronici, le persone con preparazione tecnica specifica, non vengono mandati a combattere fino a quando non hanno trasmesso alcune competenze tecniche utili alla vita del Califfato. Di questo i tecnici si lamentano: spesso hanno scelto di lasciare tutto per diventare martiri e finiscono a fare gli istruttori. Ho di recente ricevuto una email da una facoltà di medicina di Khartoum, in Sudan nella quale mi si racconta che molti tra gli studenti migliori sono partiti per combattere. Questi non sono certo dei marginali.
Durante la presa di Mosul da parte del Califfato un algerino alla guida di un gruppo di armati si è presentato alla banca centrale della città. Gli impiegati terrorizzati hanno chiesto cosa potesse servire e il giovane ha solo chiesto di sedersi a un computer. Nel giro di pochi minuti questo ragazzo aveva dirottato tutte le transazioni di quei giorni verso conti gestiti dallo Stato islamico. Il direttore della banca che ci ha parlato e che mi ha riferito l’episodio, racconta che il ragazzo ha spiegato di essersi unito all’ISIS perché desiderava che la sua laurea in informatica fosse utile a uno scopo».
A istruire le persone che lasciano l’Europa e altri Paesi per combattere – e poi tornare nelle capitali europee come una parte degli attentatori di Parigi e Bruxelles – ci sono quelli che arrivano dalle ex repubbliche sovietiche. Questi sono diversi: combattono da anni, hanno combattuto con o contro i sovietici e i russi in Cecenia o in alcune regioni di quelle repubbliche. «Sono i commandos speciali, sono tiratori scelti o ufficiali sul campo. Naturalmente assieme ai reduci del Baath di Saddam Hussein che hanno guidato uno stato dittatoriale e combattuto in Iran e contro gli Stati Uniti. Sia in Iraq, come naturale, che in Siria, come mi hanno confermato diversi combatteti di al Nusra ad Aleppo (il braccio di al Qaida nel Paese) gli iracheni gestiscono la sicurezza e comandano le operazioni militari».
Quel che rimane ai nostri occhi difficile da capire è come mai il messaggio funzioni tanto bene. «Intanto diciamo che la contro-propaganda occidentale è ridicola e disastrosa: ripetiamo in maniera ossessiva che Daesh è cattivo, taglia le teste, vuole controllare come ti vesti, cosa mangi e i tuoi comportamenti e tratta male le donne. È un messaggio che non funziona con chi subisce il fascino offerto da un ideologia messianica e comunitaria capace di fornire un senso di sé e collettivo a persone lontane tra loro. Lo Stato islamico ha allo stesso tempo un messaggio più universale e più individuale. I reclutatori passano centinaia o migliaia di ore sui social media a cercare di convincere un individuo. Lo fanno parlando con le persone delle loro frustrazioni, rabbie, aspirazioni e poi connettendo il problemi personali al messaggio universale dello Stato Islamico che è “c’è una ragione per le tue aspirazioni mancate, queste sono connesse alla persecuzione dei musulmani e al fatto che non segui abbastanza le parole del profeta.
Insomma, fanno un lavoro lento e costante per far diventare la frustrazione del singolo in sdegno. Non c’è nessuna tecnica sovietico-nordcoreana, l’idea che i foreign fighters francesi, belgi o anglosassoni abbiano subito un lavaggio del cervello è comoda per chi non ha voglia di osservare con attenzione e cerca risposte semplici e inefficaci. Instillando fiducia tribale e fornendo una causa comune, una parentela immaginaria e una fede che trascende la ragione il messaggio religioso assooluto di Daesh aiuta gli sconosciuti a cooperare in una maniera che offre un vantaggio nei confronti di altri gruppi. Per molti il Califfato è come era Israele per gli ebrei, mi ha detto un imam che aveva abbandonato l’ISIS, è un’idea superiore e per scardinarla serve un lavoro enorme». Le vittorie militari contro un esercito iracheno poco motivato sono proprio un esempio di questo fenomeno. E in qualche modo, le vittorie dei curdi dell’YPG contro Daesh sono lo stesso tipo di fenomeno: i curdi hanno una patria e un ideale superiore per cui combattere. Oltre che un nemico che fa paura.
Per queste ragioni per contrastare il reclutamento «Serve che vengano messe a lavorare persone interne alle reti dalle quali queste persone emergono capaci di parlare lo stesso linguaggio, conoscere quelle frustrazioni. Allo stesso modo in cui funzionano certe campagne contro la droga, il fumo o l’alcol: è uno come te che ti aiuta a ragionare sul fatto che quella non è la scelta giusta. Non c’è niente di simile in giro, credo. Ho chiesto al National Center for Counterterrorism quanta gente fa questo tipo di lavoro. Analisti ce ne sono centinaia, ma sul campo, c’è un solo agente a Los Angeles. E l’FBI, ho chiesto? Nessuno. Non vogliono avere niente a che fare con cose del genere, vogliono bianco e nero, individuare criminali e prenderli, mentre la prevenzione è un territorio grigio. Nessuno ha voglia di assumersi questo compito. E’ paradossale perché l”occidente ha mezzi fanastici dal punto di vista dei media, anche quelli di intrattenimento, che non usa a questi scopi. Anzi, con il loro diffondere isteria e panico i media non fanno che fornire ossigeno all’ISIS».
Il fatto che si dica che i reclutatori usino i filmati di Donald Trump per convincere le persone è un bell’esempio: «Certe dichiarazioni fanno il gioco del Califfato, che vuole eliminare le zone grigie, le sfumature, l’area tra veri credenti e infedeli – che poi è il luogo in cui vive la maggioranza della gente in tutte le religioni. Più cresce l’ostilità nei confronti verso i musulmani in Europa e più l’occidente si infila nella guerra in Medio oriente e più l’ISIS si avvicina al suo obbiettivo di creare e gestire il caos. Il loro programma è quello di eliminare quell’area anche grazie ad attacchi che generino odio contro i musulmani e mostri loro che l’essere pacifici non li risparmierà dall’essere marginali o maltrattati e che è meglio arruolarsi con l’ISIS. “Ero un marginale, non ero integrato in un sistema corrotto. Non volevo finire nella malavita e quindi mi sono aggregato ai gruppi islamici. Gli altri musulmani sperano che il ritorno del califfato piova dal cielo senza combattere, sono degli illusi”, mi ha detto un giovane francese».
Nella sua capacità di attrazione in Occidente, Daesh è diverso da come è stata al Qaeda: «L’ISIS ha una nozione nuova della geopolitica. Sebbene si definisca stato islamico, è sbagliato considerarli un’entità territoriale in senso stretto. Nel novembre 2014 Al Baghdadi ha fatto un discorso nel quale spiegava ai suoi cosa il Califfato fosse. E’ una sorta di arcipelago globale che lavora al di sotto del sistema degli stati nazionali. Come fosse una piovra gigante, allunga i suoi tentacoli in ciascun potenziale vulcano di jihad ovunque, dall’Indonesia alla Malesia, all’Uzbekistan, al Daghestan, Somalia, Ciad, Afghanistan. E man mano che questi vulcani eruttano, disseminando la loro lava – le loro idee – finiranno con il sommergere il pianeta (conquistarlo tutto). La loro visione non è quella di uno Stato, ma di un’impresa territoriale planetaria che oggi è composta di province separate, che un giorno si riuniranno. E quindi anche nel caso di arretramenti e sconfitte in Siria e Iraq, o anche se dovessere venire cacciati da quei Paesi, credo che avrebbero la possibilità di sopravvivere proprio a causa di questa idea di struttura. Si tratta di una rete molto più dinamica di quanto non fosse al Qaeda. All’inizio del XX secolo gli anarchici irruppero nel mondo un po’ come è capitato ad al Qaeda, uccidendo in fila una serie di capi di Stato (lo Zar, Umberto I, l’Arciduca Ferdinando e così via). Il mondo si è mobilitato nella caccia all’anarchico anche sostenendo che fosse in corso una cospirazione globale che non c’era. Ma non è stata la mobilitazione delle polizie a far sparire gli anarchici, chi ha colpito a morte gli anarchici sono stati i bolscevichi, con un’ideologia simile, ma con una struttura più militare, gerarchica e meglio organizzata. Allo stesso modo, quelli di al Nusra in Siria ci dicono che l’ISIS gli sta togliendo energie per ragioni simili. Ora è vero che la forza della rivoluzione russa è stata quella di avere un territorio – proprio come oggi il Califfato – ma allo stesso modo all’epoca c’era l’idea di un’internazionale planetaria che formasse una comunità unica e che lavorasse nella stessa direzione».