Siamo comodamente seduti sul divano della sua casa in campagna, dalla finestra si scorge un pacato panorama agreste. Anche se, in realtà, siamo dentro un palazzo della Capitale, tra quattro mura, in mezzo al traffico. È questo il potere di Niccolò Fabi, può portarti con sé non appena gli presti ascolto. «Hai studiato?», mi chiede mentre sistema la stanza per rendere l’ambiente più accogliente. E le domande comincia a farle lui: «E allora, ti è sembrato naturale o artificiale?», mi chiede di Una somma di piccole cose che è appena uscito, il 22 aprile, per Universal music. Nove crogioli che custodiscono una consapevolezza raggiunta in anni di fatica. E, in sottofondo, il folk rock della West Coast.
Naturale, un disco sorprendentemente folk, alla Bon Iver giusto?
Sì, è quello, indie folk americano. Anche se il folk di un 25enne del Wisconsin è diverso da quello di un 50enne di Roma (ride). Sono cresciuto con i genitori di questa nuova leva, con i Joni Mitchell e il Fort della West Coast, quel fricchettonismo americano del folk nella sua elaborazione rock.
Perché hai scelto il West Coast?
È una scelta non solo di stile musicale ma di ambientazione emotiva: una persona su un divano, isolata dal resto, fa una fotografia di quel preciso stato d’animo, rivisita la realtà che ha vissuto, la confusione, successi e insuccessi, gioie e dolori. E attraverso una lente di ingrandimento fa un’immersione dentro di sé. È un topos emotivo, un racconto interiore che anche l’ascoltatore riesce a sentire.
Con quest’album vuoi darci un consiglio?
Indirettamente sì, contiene un consiglio ma non ha quella “missione”. Ma questo è il classico disco che piace più a chi l’ha fatto che a chi lo ascolterà. È un’acquisizione: non sarei stato in grado di farlo 20 anni fa, mi sarebbe mancata la necessaria consapevolezza. Ma un lungo percorso mi ha portato ad avere questa sicurezza, adesso sento di potermi fare un regalo, potermi prendere un lusso.
Questo articolo continua sul n. 17 di Left in edicola dal 23 aprile