È storia vecchia di un secolo, è storia d’oggi. L’impero ottomano tendeva a disgregarsi, un gruppo di militari e intellettuali, i giovani turchi, voleva rifondarlo su basi nazionali ed etniche. Gli imperi erano in guerra e l’ultimo sultano, Mehmet V, aveva dichiarato la jihad, contro russi e inglesi, con i tedeschi come alleati. Gli armeni furono accusati di essere, o di poter diventare, la quinta colonna del nemico russ in Turchia.
E nella notte tra il 23 e il 24 aprile del 1915 cominciarono gli arresti a Istanbul degli intellettuali armeni, avvocati, deputati, giornalisti, poeti. Nei mesi successivi chiunque fosse armeno fu preso, incolonnato e deportato verso il nulla. Erano le” marce della morte”, lo sterminio di un popolo, programmato dai giovani turchi e compiuto sotto la supervisione di ufficiali tedeschi.
Perciò è storicamente importante che il Bundestag abbia riconosciuto quel genocidio, che gli armeni chiamano “il grande crimine” ma che i turchi hanno sempre negato. Erdogan è andato su tutte le furie. Invitabile: egli si pretende insieme sultano, erede di quel Mehmet V, ma anche erede di Ataturk, il giovane turco che divenne capo dello stato e artefice della modernizzazione turca. Quel genocidio appare a Erdogan un atto costitutivo, non un crimine. E i curdi, che nel 1915- 16 cooperarono alle deportazione degli armeni, sono, agli occhi di Erdogan e del suo governo, i nemici di oggi. Essendo i curdi una nazione senza stato, forte minoranza in Turchia e in Iraq, presente in Siria e Iran, e ora alleati degli americani nella guerra contro Daesh. Un pericolo per chi, come Erdogan, si vorrebbe sintesi tra Mustafa Kemal (Ataturk) e Mehemed II, che prese Istanbul.