Guardiamo il lato positivo: gli ultimi dati Istat sulla produzione industriale ci hanno almeno risparmiato dai tweet sull’Italia-che-cresce-ma-bisogna-fare- di-più. Dal 2008 è andato perso un quarto della produzione, ma al governo sarebbe bastato il solito “zero virgola” di incremento per schierare il plotone dell’ottimismo. Attendibile come i dispacci di gloriose avanzate sul fronte russo. Invece diminuiscono sia il fatturato sia le commesse per il futuro.
«Lo dico senza problemi e lo dico in base ai numeri. L’Italia ha svoltato. Punto». Lo assicurava Matteo Renzi pochi mesi fa nell’intervista al Foglio dal titolo “Sveglia, la crisi è finita”. I numeri, testardi, continuano a raccontare altro: il fatturato dell’industria è oggi inferiore al 2010, era berlusconiana, ma anche rispetto a febbraio 2014, quando si è insediato l’attuale governo. Che certo ha trovato in dote i frutti avvelenati dell’austerity di Monti, ma ha diligentemente perpetuato le stesse politiche per ridurre i salari e la spesa pubblica. Così – prescrive l’ortodossia europea – aumenteranno le esportazioni e migliorerà il saldo commerciale con l’estero. È vero: rispetto al 2010 l’industria esporta il 19% in più, peccato che nel frattempo sia crollata la domanda nazionale (-13%), che in valore assoluto è molto più consistente. Ma anche la domanda estera è da tempo stabile o in lieve declino, con un calo fragoroso degli ordinativi nell’ultimo mese (-6%).
Le interpretazioni più consolatorie attribuiscono il rallentamento alla stagnazione internazionale, ma purtroppo ci sono ragioni ben più gravi, che chiamano in causa non solo la quantità, ma soprattutto la qualità del sistema produttivo italiano. L’industria nazionale si sta de-specializzando, non migliora i prodotti, deposita il 2% dei brevetti internazionali a fronte dell’ 11% della Germania e della Cina, rimane assente o marginale in molti settori ad alto valore aggiunto (si pensi a biotecnologie e high-tech). Così perde quote di mercato non solo a favore dei Paesi avanzati, ma anche di molti emergenti, che al costo del lavoro ridotto abbinano ormai un rapido sviluppo tecnologico.
“Bisogna investire di più” – si dice – giacché gli investimenti sono crollati del 30% dall’inizio della recessione. Tuttavia, l’economista Roberto Romano documenta su Sbilanciamoci.info come anche questo sia un problema qualitativo più che quantitativo. A mancare sono soprattutto gli investimenti ad alta tecnologia; inoltre i beni capitali sofisticati (macchinari, brevetti, licenze) devono essere in gran parte importati dall’estero, per l’assenza di una valida offerta nazionale. Non serve nemmeno – dice Romano – invocare più ricerca e sviluppo: è vero che il nostro Paese vi impiega poche risorse, ma è una coerente conseguenza di ciò che produce, beni e servizi di complessità limitata. Ben venga la promozione del buon cibo italiano, ma il packaging del Parmigiano richiede certo meno ricerca delle sonde di Stephen Hawking per Alpha Centauri.
Ecco il punto. In Italia manca una politica industriale..
Questo articolo continua sul numero 23 di Left in edicola dal 4 giugno