Fantastico. Alla fine dicono la Madia e Giachetti che a Roma la sonora sconfitta del PD abbia un nome e cognome: Matteo Orfini. Sarebbe il già vecchio giovane turco l’uomo che ha portato i democratici nella palude e, dice la Madia, che con lui si sono perse le periferie, si sono persi voti e si è pagato lo scotto per Mafia Capitale.
Da quando la politica ha preso i tempi del turborenzismo, tutta presa dall’ansia del cambiamento e dall’ossessione della narrazione veloce, anche la memoria sembra essersi corrotta in mezzo alla fretta: la rimozione di Ignazio Marino, voluta e ordinata da Matteo Renzi (come lo stesso ex sindaco ha raccontato), è stata l’inizio di un declino che non sarebbe stato difficile immaginare concludersi con un fallimento simile.
Credere che i cittadini romani possano ritenere affidabile un partito che rimuove il proprio sindaco, tra l’altro con un vigliacchetto appuntamento da un notaio senza passare dal Consiglio Comunale, significa avere perso non solo la connessione con i propri elettori ma addirittura con il buon senso. Il renzismo (anche a Roma) si è convinto, sbagliando, che tra le deleghe di un partito politico ci sia quello di brigare internamente senza dare risposte ai cittadini: Renzi risponde stizzito alle critiche ma oculatamente ha evitato di dare spiegazioni di alcuni passaggi politici che non passando direttamente dal voto avrebbero avuto bisogno ancora di più di comunicazione e comprensione.
Su Mafia Capitale la guerra televisiva su chi avesse la mafia più lunga tra destra e sinistra è apparsa piuttosto disdicevole; la campagna anti-Raggi (con tanto di sms non richiesti nelle battute finali della campagna elettorale) ha avuto il sapore di un infantilismo di ritorno; una campagna elettorale basata sulle buche, sulle olimpiadi (presunte) e sull’esposizione di membri del governo come feticci portafortuna. Siamo sicuri che sia tutta colpa di Orfini?