A Salonicco si sta relativamente bene. Ci sono quartieri più disastrati e zone più turistiche e frequentate. Ci sono macchine e via vai di gente. I lavori per la metropolitana della seconda città della Grecia sono stati iniziati e interrotti due anni fa, causa: crisi e fine dei soldi. Cantieri fantasma e lavori in corso che non finiranno mai. E, fin qui, forse, è tutto più o meno negli standard dell’immaginario di un’italiana che si reca in Grecia per un incontro sul tema dell’immigrazione. Già il giorno prima di arrivare, sui social, girava la notizia dell’imminente sgombero del campo informale di Idomeni. E degli 8.500 profughi che durante il loro percorso verso il centro dell’Europa, si sono ritrovati davanti a un nuovo muro, eretto dalla Macedonia al confine greco, avallato e accettato senza troppe proteste da Bruxelles.
Qui in Grecia lo chiamano “The Deal”, l’accordo Ue-Turchia dello scorso 18 marzo. Un termine che sa di commercio, commercio di esseri umani contro la moneta dei diritti. Lo sgombero inizia, seguiamo quanto accade via social. Il primo giorno in 4mila vengono convinti a salire sui bus della polizia che li accompagnerà nei primi centri governativi. Senza scontri, ma con la tipica fermezza – racconteranno ragazzi e donne – di chi non ammette dialoghi né repliche. Arriviamo al confine con l’area del campo il giorno dopo. La strada provinciale è presidiata e bloccata dalla polizia greca. C’è silenzio inquietante, aria rarefatta. Come dopo un terremoto. Il posto di blocco non ci fa passare. Bisogna essere muniti di autorizzazione anche per andare a vedere i resti del campo vissuto per mesi sotto la neve invernale e ora, a inizio primavera, sgomberato con le ruspe.
I resti di un avamposto di resilienza e resistenza umana che sperava di continuare il suo viaggio. Dopo di noi passerà un gruppo di giornalisti, messi su un pullman per un bel giro turistico, come si farebbe intorno alle macerie di un luogo bombardato e abbandonato. O in un safari fotografico in Africa. Moltissimi dei migranti che non sono saliti sui pullman hanno dovuto muoversi a piedi. I taxi sono stati proibiti perché avrebbero potuto, dietro pagamento, accompagnare i profughi verso altre zone e offrire quindi un servizio come quello dei trafficanti. E se, invece, avessero chiesto il prezzo della corsa sarebbero stati incriminati di favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
Pochi chilometri più in là, i primi campi informali. Piccoli accampamenti con tende da due posti che sembrano volare non appena si alza un soffio di vento più deciso. Decine di bambini che, appena ti vedono, ti corrono incontro con l’allegria di chi non ha capito e non sa cosa succede. Dietro, i volti delle madri. Hanno sguardi silenziosi, un misto di dignità e angoscia spezzata. Sguardi come parole spezzate in un limbo. Incontro migliaia di profughi nei campi informali, e un numero sconcertante di bambini in transito, in tendopoli, campi militari allestiti come nelle zone di guerra. Su banchine dei porti, zone di carico e scarico merci, pompe di benzina sulle strade provinciali, campi semi-arati con i serpenti che attraversano la strada. Uomini e donne in fila per una bottiglia d’acqua davanti alla cisterna che passa una volta al giorno. In fila per un pasto. File che possono durare anche 5 ore e, all’arrivo, le razioni potrebbero anche essere finite. Come in un film di fantascienza, a quel punto, gli esasperati si azzuffano, litigano, corpo a corpo, e la polizia li guarda da due metri, braccia conserte, senza intervenire.
Gli attivisti greci informano che sono 55mila i profughi prigionieri in Grecia, isole comprese. In un recente comunicato stampa l’Unhcr riporta invece 57mila, e aggiunge che l’Rmrp (il Piano di risposta per rifugiati e migranti) è stato ridefinito alla luce del fatto che ora i profughi non sono più da considerare “transitanti” ma “stanziali”. Se chiudi il cancello gli animali non escono dalle stalle. Il nuovo piano ha avuto un adeguamento anche economico. Si calcola un fabbisogno di quasi 670 milioni di dollari Usa solo per il 2016, di cui per adesso sono stati raccolti quasi 329 milioni. Questi 57mila nomi nuovi da identificare, collocare e accogliere, ci fanno paura. Tra loro, giovani donne con neonati, alcune durante il viaggio hanno partorito il loro primo figlio, molte il secondo o il terzo. Molti bambini sono nati in Grecia, molti forse già in Turchia. Figli del viaggio della speranza e dell’incubo dei muri, dei fili spinati e dei trafficanti. Figli dell’indifferenza e delle quote dell’Europa. Ora sono qui, incastrati con le loro madri e i loro padri in questa terra di confine e di confino che è diventata la Grecia.
Hotel Hara, all’ingresso di Evzoni. Il “campo” è all’interno di una pompa di benzina dismessa. Il piccolo ristorante, stile Autogrill, funziona invece a ritmo accellerato. La benzina non si può acquistare, ma i servizi sono altri. Qui c’è il business delle docce, tanto per cominciare. L’acqua scarseggia e c’è chi regola i flussi chiedendo 5 euro per 5 minuti di getto d’acqua. E in quei 5 minuti la gente si organizza, passano anche dieci persone per volta, di corsa con un pezzo di sapone e una pezza per ottenere qualcosa che assomigli a una doccia. Poi, ancor più fiorente, c’è il traffico di esseri umani. Le associazioni riportano di una base della mafia albanese e macedone all’interno del ristorante, contrattano e organizzano i viaggi e il superamento del confine. Fino a qualche settimana fa il tariffario era il seguente: per un Safety travel da Atene in Austria, 2.500 euro; con incluso anche un documento falso si arriva fino a 5mila. Adesso, invece, che la gente è allo stremo, i prezzi si sono fatti più abbordabili: con 50 euro si può attraversare a piedi il confine, di notte, economico ma altrettanto pericoloso. Una tratta percorsa solo da giovani pronti a correre il rischio di incappare nella polizia macedone, col suo carico di violenza. Chi invece ha ancora qualche disponibilità economica può acquistare un biglietto aereo per la Germania e un visto falso, con 300 euro. Ma su questo in molti hanno il dubbio sia una truffa, chi è partito non ha mai dato conferma del suo arrivo. Ancora un’altra opzione è quella dei carri merci: stipati dentro i container su ruote e poi nascosti dietro le casse di merce. Anche se questi carri bestiame – raccontano i profughi – quasi mai riescono a passare il confine greco, perciò, quando ti scaricano, ti ritrovi da solo lontano dalla partenza ma ancora al di qua della Grecia.
Sono tantissimi gli uomini e le donne che non vogliono trasferirsi nei campi ufficiali gestiti dai militari. Hanno paura di entrare in una nuova prigione. Non si fidano più. Dicono di aver paura che, dal giorno alla notte, questi campi diventino chiusi, di non poterne più uscire. Adesso ne sono tutti convinti: l’unica soluzione è chiedere asilo in Grecia, l’alternativa è essere rispediti in Turchia ed entrare in un campo turco. Un incubo senza fine.
Nea Kavala Camp – They will are open the border?
Siamo a circa venti kilometri da Salonicco, nel campo allestito alla fine di febbraio, uno dei primi ad aprire, all’interno di un aereoporto dismesso. Ospita circa 2.600 persone, siriani, iracheni, pachistani, kurdi. È un campo “aperto” gestito dai militari, ma aperto per i migranti non per la società civile. Entriamo grazie a un permesso concordato dagli attivisti greci con le autorità di polizia. All’interno sono presenti alcuni operatori di Unhcr e Save the chidren che, durante le tre ore di visita, in realtà, passano il tempo chiacchierando tra loro. C’è anche un presidio medico, fatto da due grosse tende della Finnish Red Cross e German Red Cross con i loghi bene in evidenza. Le tende dei nuclei familiari sono in prevalenza dell’Unhcr, e molte donne arrivate il giorno stesso allestiscono quella che diventerà la loro nuova casa. Ha tutte le sembianze di una zona di guerra, a prima vista, tale è la mancanza di tutto.
Sulla pista dove un tempo atterravano gli aerei, adesso ci sono delle lunghissime file per ritirare il cibo. Ci si mette in fila almeno due ore prima. Un uomo in fila mi chiede chi sono e cosa faccio lì: «L’Europa non vuole vedere il nostro dramma. Siamo scappati dalla guerra e dall’orrore della Siria. Ora l’Europa ci tratta come criminali, siamo in mano della polizia come terroristi! Quando un giorno tornerete in Siria, quando la guerra sarà finita, direte che la vittoria è stata vostra, che avete combattuto per noi “poveri siriani”, ma nel frattempo siete voi che ci state uccidendo». In fila anche giovani coppie con bimbi di pochi mesi, tutti dicono che nessuno sa dargli informazioni legali o di altro genere.
Mi imbatto in Amin, 11 anni, che mi porta a conoscere la sua gentile e accogliente famiglia. Sono scappati da Aleppo. Mi accolgono e mi offrono di fermarmi a mangiare con loro, è ora di pranzo. Il padre di Amin è in Germania, e loro cercano di raggiungerlo, sono in viaggio da 7 mesi. Insieme ad Amin ci sono sua madre, sua sorella e suo zio: dalla Siria all’Iraq, poi Turchia e dopo 4 mesi nel campo a Idomeni sono stati sgomberati e portati al campo. «They will re open the border?», mi chiede Amin con gli occhi che brillano, mentre noi adulti ci guardiamo negli occhi, in silenzio, senza quasi riuscire a deglutire. «Il tuo sogno è forte e grande e insieme ai nostri diventerà ancora più forte e grande. Bisogna aspettare ancora un po’. Inshalla», rispondo. «Inshalla», rispondono subito loro. La loro accoglienza è immediata, sincera, semplice e diretta. La nostra no.