È una terra bellissima e ferita la Mongolia raccontata da Ian Manook, lo scrittore francese che il 30 giugno è ospite del Letterature Festival di Roma mentre Fazi manda in libreria il suo Yeruldelgger, il primo volume di una trilogia che in Francia è diventato un caso letterario (150mila copie vendute e decine di premi). Protagonisti del romanzo sono personaggi decisamente fuori dall’ordinario come commissario Yeruldelgger, un gigante dal passato durissimo ma che non ha perso la sensibilità, come il medico legale Solongo, solitaria e bella come il sole, e poi come l’ispettrice Oyun e Gantulga un vispo ragazzetto di strada, che aiuta il commissario nella sciarada di un caso che comincia con il ritrovamento di uomini e donne cinesi assassinati. In attesa del suo intervento sul palco di Massenzio, gli abbiamo rivolto qualche domanda per capire qualcosa di più del suo lavoro.
Ian Mannok, oltre ad essere giornalista e scrittore lei è anche un viaggiatore, perché fra i tanti Paesi che ha conosciuto ha deciso di ambientare il suo romanzo in Mongolia?
Ho scritto questo romanzo per una sfida con mia figlia, io non ne avevo mai scritti, il giallo non faceva parte della mia cultura. Allora ho provato a scrivere un romanzo “cinematografico”, cercando di vederlo in una ambientazione diversa dalla Francia. Ero incerto fra il Brasile, l’Amazzonia, dove ho viaggiato per più di un anno da giovane, ma avevo pensato anche a scenari più mirabili come la Patagonia, l’Alaska e la Mongolia. Alla fine ho scelto quest’ultima anche per la sua tradizione sciamanica. In quel tipo di cultura la morte e altri aspetti della vita hanno letture differenti rispetto a come le vediamo noi in occidente. Ho pensato che potessero dare ai miei personaggi una caratterizzazione differente e interessante. Ma l’ho scelto anche perché ero stato in Mongolia nel 2007 : mia figlia minore aveva adottato un bambino a distanza e volevamo conoscerlo, sapere come era cresciuto.
Il ragazzino di strada che aiuta l’ispettore mi ha fatto pensare ai bambini che a Bucarest vivono nei sotterranei. Ad Ulan Bator l’emarginazione riguarda in modo particolare le madri single che non hanno nessun aiuto, anche quando hanno figli disabili. Ed è un fenomeno che riguarda solo la metropoli. Come nasce?
Quando i nomadi perdono gli animali non hanno più di che vvivere. Allora vanno nei sobborghi di Ulan Bator, dove gli viene assegnato un piccolo appezzamento di terra, 700 metri quadri, per mettere una tenda. I ragazzini delle famiglie che hanno perso i loro mezzi di sussistenza vanno nella metropoli in cerca di un modo per sopravvivere. Un po’ come i bambini di Bucarest, è vero. Quanto al mio Gantulga l’ho immaginato avendo a mente Gavroche dei Miserabili di Victor Hugo.
Ulan Bator con i suoi bassifondi e l’architettura sovietica non è solo uno sfondo nel romanzo. In che modo l’ideologia sovietica è intervenuta sovrapponendosi alla tradizione locale? Con quali effetti?
Dagli anni Venti i mongoli sono stati sotto il regime sovietico. E fino agli anni Novanta non sono più stati indipendenti.È stata una dominazione molto forte da parte del regime sovietico. Dobbiamo ricordare che la Mongolia è stata la prima ad essere annessa. Ai mongoli oggi non piacciano per niente i souvenir della Russia, Ulan Bator è una città dal triplice volto: c’è una parte sovietica, che i mongoli non amano, non l’hanno distrutta, ma lasciano così abbandonata a se stessa; un’altra parte di Ulan Bator ha l’aspetto di una capitale di un Paese emergente, con l’ambizione di fare soldi rapidamente. Vi svettano edifici molto moderni. La terza parte della città ricorda che proprio in Mongolia è nato il terzo Dalai Lama, l’unico non tibetano. La stessa parola Dalai Lama, che significa “oceano di saggezza”, è di origine mongola. Curioso, anche perché in Mongolia non c’è il mare. È un nome che fu inventato per il terzo Dalai Lama e poi fu riattribuito ai primi due ed è rimasto in uso. Si va riscoprendo il fatto che la Mongolia è stata un’ area importante per la filosofia buddista. Così oltre alla parte russa e a quella ultra moderna, c’è anche una parte della città che è luogo di ritrovo per i buddisti che non si fermano più solo a Katmandù.
I nomadi hanno una concezione dell’abitare e un modo di intendere i confini non come barriere che può insegnare qualcosa alla vecchia Europa che sempre più sembra voler alzare muri?
Non dobbiamo pensare alla Mongolia come a un paesaggio da cartolina. I nomadi, in realtà, non sono gente che vive tranquillamente in un paesaggio meraviglioso. Il loro è un modo di sopravvivere in un ambiente non facile. Non trovi popolazioni nomadi dove il contesto è accogliente, li trovi dove sono costretti a spostarsi a causa di pericoli, come i terremoti ad esempio. Li trovi in Amazzonia e nei deserti. Non fidarsi delle cartoline. L’altra cosa da dire è che dietro al nomadismo ci sia un’idea che la terra non appartiene a nessuno. Il nomadismo è il contrario: dice che la terra appartiene a tutti. Se la si pensa così non si lascia il terreno distrutto, saccheggiato, bisogna fare in modo che chi arriva dopo trovi il modo di sopravvivere. La nostra filosofia occidentale è piuttosto dell’idea che il territorio non è di nessuno, dal momento che lo sfruttiamo come se dopo di noi non ci sia più nessuno.
La sua è una narrazione sconfinata, come si sta sviluppando la sua trilogia di cui in Italia è uscito, per ora, solo il primo volume ?
Nel libro quando parlo del personaggio parlo anche della Mongolia, quando parlo del Paese parlo anche del protagonista. Yeruldelgger è come la Mongolia, sembra forte, indistruttibile, ma può sparire da un momento all’altro. La Mongolia davvero da qui a dieci o venti anni può collassare economicamente, politicamente, ma anche fisicamente perché è una delle zone più a rischio sismico. Nella trilogia ho voluto provare a raccontare tre momenti diversi che si intrecciano, nella prima fase Yeruldelgger cerca di fare il meglio per il suo Paese riallacciandosi alla tradizione, in maniera positiva, senza rabbia, ma non ci riesce. Nel secondo volume il protagonista del racconto è arrabbiato con se stesso per non essere riuscito a non infuriarsi, per questo esigeva un terzo libro: per dare una prospettiva alla propria vita e a quella del Paese. In Francia uscirà i primi giorni di ottobre.