Le sinistre di Gran Bretagna e Spagna sono alle prese con le scosse di assestamento del terremoto politico provocato nei due Paesi, dalla Brexit nel primo e dalle elezioni politiche nel secondo. Entrambi gli appuntamenti hanno avuto esiti imprevisti (vittoria dei “No” all’Europa, conferma del Partito popolare al governo). Messi a dura prova sono il Labour party con la leadership di Jeremy Corbyn e il Partito socialista (Psoe) guidato da Pedro Sánchez. In terra iberica è in sofferenza anche la nuova sinistra di Unidos Podemos, che puntava sulla propria partecipazione al governo in tempi stretti.
La radiografia del dibattito in corso è utile per capire problemi e questioni su cui sembra essersi arenato da tempo il dibattito e il rinnovamento delle sinistre europee. In Gran Bretagna, dove è in corso la lotta per la successione della premiership tra i conservatori, la Brexit ha messo in ginocchio pure il Labour. Mentre David Cameron è rimasto schiacciato dal risultato del referendum avendo sostenuto un timido “Sì” contro l’orientamento di gran parte del suo partito, la posizione di Corbyn è apparsa ancora più flebile: pur facendo intuire nella campagna elettorale gli effetti negativi dell’uscita dall’Europa, il segretario laburista non ha avuto la determinazione di schierare il proprio partito su una posizione europeista. Ora i deputati che lo hanno sfiduciato a grande maggioranza gli rimproverano di non essersi differenziato a sufficienza dai Tories e di aver gestito il Labour su una linea inconcludente.
Chi conosce la storia dei laburisti a proposito di Europa sa però come diffidenza e ostilità verso il progetto comunitario siano radicate nella sinistra britannica. Non era facile per Corbyn imprimere una svolta. Perfino Tony Blair, che ha governato dal 1997 al 2007, non si è mai caratterizzato per il suo europeismo. Anzi, con il senno di poi colpisce che anche la sinistra moderata di casa nostra abbia negli anni Novanta santificato la politica neoliberale e di riscoperta del “centro” facendo del blairismo il punto di riferimento della propria bussola ma dimenticando l’handicap di Blair: non poteva essere leader della sinistra europea chi aveva uno scarso tasso di europeismo nella propria cultura politica.
Corbyn per ora non ha intenzione di mollare. Prova a resistere alle critiche e all’onda d’urto dei blariani – Blair ha annunciato che vuole tornare a occuparsi delle vicende di orientamento del Labour – che ne criticano la politica eccessivamente di sinistra sui temi internazionali, dei diritti, dell’ecologia e del lavoro. Corbyn può contare su quanti lo hanno portato al vertice (i sindacati innanzitutto) chiedendo il radicale rinnovamento della strategia del partito e sulla galassia della sinistra interna (per tradizione e organizzazione peculiare del Labour hanno diritto di cittadinanza trotzkisti, femministe, ecologisti e spezzoni di sinistra radicale). Sarà Corbyn a condurre i laburisti alla prova elettorale contro il successore di Cameron? Troppo presto per dirlo. Occorrerà un congresso per decidere il da farsi su immigrazione, politiche economiche, relazioni da ridefinire con Bruxelles, problemi internazionali su cui pesa l’eccessiva subalternità alla politica statunitense che il “No” all’Europa potrebbe accentuare.
L’analisi di Aldo Garzia continua su Left in edicola dal 9 luglio