La prima serata della convention repubblicana è un cattivo show Tv anni 80 nel quale il candidato impone una sua presenza eccessiva. Il partito appare diviso, il messaggio è rabbioso e la possibile first lady Melania plagia il discorso di Michelle Obama

Il partito contro la campagna, la necessità di dare un’impressione di unità del partito contro i partigiani del #NeverTrump, l’avanspettacolo contro lo spettacolo curato nei particolari che, pur nei suoi eccessi all’americana, mantiene una parvenza di serietà. Il primo giorno delle convention repubblicane del 2008 e del 2012 era saltato per ragioni legate al meteo (uragani in transito), sarebbe stato meglio per il partito che si appresta a nominare Trump che capitasse qualcosa di simile anche nel 2016.

La prima serata della convention di Cleveland è stata un mezzo disastro. Analizziamola per punti.

Il plagio di Melania

Era il discorso clou della serata e, come sempre, è un modo per introdurre al pubblico la potenziale futura first lady e, al contempo, fare in modo che questa dipinga un ritratto umano, intimo, del marito, potenziale presidente. Bene, il discorso di Melania Trump, era recitato, pessimo, freddo, noioso: gli aggettivi sbagliati e sempre gli stessi (meraviglioso, fantastico, grande e grandioso), nessuna storia da raccontare somigli davvero a quella di una vicenda di duro lavoro e sofferenza e la necessità di spiegare in maniera indiretta che “se pure sono un’immigrata diventata cittadina, so che diventare cittadino costa fatica”. Ma non è questo il punto: il punto è che un bel pezzo della biografia personale, dei toni del discorso, sono un plagio del discorso di Michelle Obama nel 2008 – come si nota nel confronto qui sotto. Ma cosa è successo? È possibile che il team Trump sia così improbabile o c’è un complotto in corso? La spiegazione migliore è che la squadra di Trump sia così inesperta di politica vera e così abituata ai reality da pensare che se un discorso funziona, tanto vale usarlo, che non ci saranno plotoni di esecuzione pronti ad aprire il fuoco su ogni errore, gaffe. Sono i maledetti media liberal in mano ai democratici? Ieri con un tweet, TheDonald ha accusato CNN di essere smaccatamente contro di lui e ha già bandito dai suoi comizi diversi altri media. Ma la verità è che tra vincere delle primarie portando a votare pezzi di società creduloni, arrabbiati e stanchi di come vano le cose e il gioco della politica per grandi c’è un abisso. Melania Trump, modella slovena che sul palco non era assolutamente in grado di fare la faccia credibile mentre parlava del grande Paese e del marito combattente pronto a lottare per il popolo, è precipitata in quell’abisso.

La rivolta fallita dei #NeverTrump (già, perché c’è chi si rivolta?)

Sono stati mesi a cercare un candidato alternativo. Senza trovarlo. La verità è che nessuno di credibile si azzarda a mettere la faccia in un’operazione che è destinata a fallire o a spaccare il partito repubblicano fino a correre il rischio di trovarsi il miliardario newyorchese che ha vinto le primarie a correre contro Clinton e l’eventuale candidato ufficiale. Per alcuni Trump non è abbastanza conservatore, mentre per altri non è credibile, serio, presentabile. Non è presidenziabile. Quelli più seri, anziani, preoccupati per il destino del Paese hanno già detto che non voteranno o voteranno Clinton. Poi c’è la rivolta dei conservatori e dei moderati, che ha due segni: quello di rifiutare un candidato che danneggia l’immagine sobria, austera del partito e quella di un candidato che con le sue sparate e la piattaforma di estrema destra presentata come programma elettorale rischia di alienare per molti anni una parte centrale dell’elettorato. Ci sono Stati dove i repubblicani eleggono senatori e deputati (e governatori) tendenzialmente moderati che temono seriamente che con Trump e i suoi toni perderanno eletti. Molti danno già il loro candidato presidente per sconfitto e allora puntano a indebolirlo per mostrare agli elettori che nel partito c’è gente diversa. In fondo i candidati presidente sconfitti durano una campagna elettorale, il partito e le maggioranze in Senato e alla Camera restano.

E così ben nove Stati hanno chiesto di votare un cambiamento delle regole della nomination per sperare in una conta quando avverrà la chiama Stato per Stato per scegliere il candidato. Come vedete nel video qui sotto ci sono stati momenti di tensione, con le delegazioni e molti delegati che chiamavano un voto a chiamata e non assembleare (con la presidenza che chiede “chi è favoravole dica Sì”). La presidenza ha deciso che non sarebbe andata così e sentito più Si che No venire dalla platea, impedendo una conta vera dei voti contrari a Trump. L’Iowa e il Colorado sono usciti dalla sala: il Colorado e l’Iowa sono stati in gioco a novembre. Che avrebbe vinto comunque, ma sarebbe stato più ostaggio del partito. A questo punto la nomination, con la chiamata degli Stati che attribuiscono i loro delegati a un candidato, e che di solito non vede diserzioni, rischia di essere un nuovo momento di tensione. Pessimo affare: la convention serve a dare un’immagine di compattezza, a celebrare i valori del partito, enunciarli e rafforzare l’immagine del candidato. Una convention divisa non aiuta.

Lo show anni 80 e la presenza ingombrante di TheDonald

Il candidato vice di Trump, Mike Pence, e Scott Baio (AP Photo/Paul Sancya)
Il candidato vice di Trump, Mike Pence, e Scott Baio (AP Photo/Paul Sancya)

Alzi la mano chi ha meno di 35 anni e che, fino a ieri, sapeva chi fossero Scott Baio e Kimberlin Brown, rispettivamente personaggi famosi (ma tutto sommato minori) in Happy Days e Beautiful. Le star portate sul palco suonano stanche, ricordo di quella Grande America promessa da Trump che non è mai esistita ma che se si è un bianco della suburbia si ama ricordare come tale (non era meglio per chiunque quando si avevano 30 anni in meno?). E così Spadino (così era Scott Baio in italiano) parla come un membro della comunità italoamericana di Staten Island: lavoratore, serio, cristiano e sanamente conservatore. Non estremo, ma impaurito per il mondo che cambia. Un’America stanca e superata, che sarà anche stata grande, che merita un posto a tavola anche domani ma che non può pretendere di fermare il tempo ai meravigliosi anni 80 del boom immobiliare e della Borsa e del trionfo nella Guerra fredda.

Le star, come l’apparizione alla Rocky Balboa tra il fumo e la musica di We Are The Champions dei Queen suonano come uno show Tv superato. Certo, ovunque nel mondo occidentale l’elettorato senior partecipa di più al voto, ma anche gli anziani guardano le serie Tv contemporanee. Qui sembrava di vedere un mix tra le trasmissioni estive del mattino di Rai 1 e Uomini e donne di Maria De Filippi in salsa politica. L’idea che il candidato si presenti la prima sera sul palco e introduca lui la moglie, anche, è fuori dalla prassi. Il fatto è che Trump non riesce ad aspettare il giorno dell’incoronazione: vuole e vorrà parlare, esserci. Questa non è la convention del partito che ha fatto di tutto per impedirgli di diventare il candidato e che lo ha frenato quando voleva imporre ospiti e tempi che avrebbero reso l’appuntamento di Cleveland peggiore di quel che è (o più divertente, ma non è questo il punto). Questa convention è la sua.

Le pantofole di Nancy e Ronald Reagan. Mai più senza

La convention della destra rabbiosa

I momenti efficaci, vincenti, della prima serata sono stati quelli nei quali gli speaker urlavano il loro risentimento dal palco. Attacchi virulenti contro Hillary Clinton, «che porta la responsabilità della morte di mio figlio e mi ha chiamata bugiarda», come ha detto Patricia Smith, madre di Sean, uno dei morti nell’attacco contro l’ambasciata americana di Bengasi. O come lo sceriffo Clarke Smith, ex democratico, afroamericano, che ha cominciato il suo discorso dicendo «Le vite blu contano (parafrasando Black Lives Matters)» e ricordando i poliziotti morti e dicendosi felice che «le viziose inchieste sui poliziotti a Baltimora sono state respinte e i miei colleghi di quella città assolti». Lui e poi Rudy Giuliani hanno promesso pugno duro contro il «collasso dell’ordine costituito che io chiamo anarchia (come ha detto Smith). L’ex sindaco di New York, l’uomo della tolleranza zero che ha ripulito la metropoli e reso possibile quel boom immobiliare che l’ha svuotata dei poveri, ha promesso che Trump farà per l’America quel che lui ha saputo fare a Manhattan. L’idea di fondo ripetuta in maniera ossessiva è quella del «Le cose vanno male e Donald le aggiusterà», «Noi contro di loro», dove loro sono i politici, la vecchia navigata e cinica Clinton, contro il non-politico Trump. Anche in questo caso è il candidato contro Washington, non il partito contro l’altro. Funzionerà questo populismo rabbioso e negativo che racconta che i terroristi stanno invadendo il Paese e fa parlare dal palco i fratelli di un poliziotto di frontiera ucciso da messicani che cercavano di passare il confine? Lo vedremo a novembre. Per ora tutti i passaggi suonano stonati. Ma è pur vero che con questo spettacolo mediocre e rumoroso diversi populisti hanno vinto le elezioni.

PS La risposta della campagna Clinton, che intanto lavora a rifinire i dettagli della convention di Philadelphia, è nervosa: 25 mail di risposta agli attacchi (e anche parlando d’altro) nella mail del cronista in una serata