Vittorio Agnoletto, nel libro “L’eclisse della democrazia” lei ha denunciato la volontà, da parte del mondo politico italiano, di bloccare l’inchiesta della procura di Genova relativa alle violenze alla Diaz e alla caserma Bolzaneto. È cambiato qualcosa rispetto ad allora?
Quanto è avvenuto in questi ultimi anni conferma quello che noi avevamo scritto in occasione del decennale di Genova. Le sentenze, per quanto riguarda la Diaz e Bolzaneto, ricostruiscono quanto avvenuto, che è assolutamente sovrapponibile con quello che già allora il movimento ed io avevamo dichiarato. Oggi abbiamo una verità giudiziaria e processuale che si sovrappone alla verità storica e a quello che noi dicevamo allora. Nonostante questa verità, nessuno dei massimi responsabili di quanto accaduto ha pagato. Molti reati sono stati prescritti e anche i condannati non hanno fatto un solo giorno di detenzione. Su Bolzaneto e Diaz manca giustizia. I magistrati che hanno condotto l’inchiesta sono stati isolati dal sistema politico che ha spinto perché quelle indagini non andassero avanti.
Ma prima di tutto non possiamo dimenticare che manca la verità sulla morte di Carlo. Quel processo non si è voluto realizzare.
Come legge la sentenza della Corte Europea del 2015, che condanna l’Italia per l’assenza del reato di tortura? Ieri il via libera alla legge è saltato di nuovo.
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ribadisce che, nonostante l’Italia abbia firmato, nel 1984, la Convenzione sulla tortura, ad oggi, non c’è una legge. La cosa è grave, perché negli altri Paesi che hanno firmato la Convenzione la legge c’è. É inaccettabile l’opposizione dei vertici della Polizia e dei carabinieri alla sua approvazione, oltre che incomprensibile: chi ha motivo per opporsi ad una legge che sanziona chi pratica la tortura? A meno che si ritenga che chi lavora nella sicurezza dello Stato si collochi al di sopra delle leggi e quindi possa praticare anche la tortura. Questo sarebbe assolutamente anti-costituzionale. I magistrati che hanno condotto i processi di Genova già allora avevano indicato la gravità dell’assenza di questa legge.
Inoltre, non si è riusciti ad ottenere i codici di riconoscimento sulle divise di polizia e carabinieri: nessuno dei poliziotti che ha praticato violenze alla scuola Diaz è stato condannato proprio perché avevano il volto coperto, e quindi le vittime non hanno potuto riconoscerli. Se ci fossero stati dei codici di riconoscimento, come negli altri paesi europei, ogni poliziotto avrebbe risposto delle proprie azioni. Anche qui la richiesta è semplice: che la legge sia uguale per tutti. Il sistema politico italiano, rinunciando a questi due provvedimenti, ha dimostrato la propria subalternità ai vertici delle forze dell’ordine.
Quali erano le finalità politiche del movimento di Genova? E quanto ha influito la violenza di quei giorni nel raggiungimento di quegli obiettivi?
Susan George, all’epoca presidente di Attac France, il 16 luglio del 2001, aprendo il social forum di Genova, disse: «Questo è il primo movimento in Europa che non chiede nulla per se stesso, ma che lotta per migliorare il futuro di tutta l’umanità». Non era un movimento che rivendicava qualcosa verso questo o quel governo, ma voleva interpretare la condizione del 90% dell’umanità. La battaglia per i «beni comuni» comincia proprio in quegli anni e il primo bene che il movimento ha individuato è stata l’acqua. Poi c’è stato il grande tema della lotta contro l’industria militare che trae grandi profitti dalla produzione di conflitti grazie alla vendita delle armi.
É stato il movimento che ha posto la questione della Tobin Tax, la tassa sulle transizioni finanziarie e speculative, enunciando con chiarezza che se la finanza avesse dominato l’economia, avremmo avuto in tutto il mondo una grave crisi sociale ed economica. Come poi è stato. Quel movimento, poi, si opponeva alle politiche di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale nel sud del mondo, che hanno distrutto lo stato sociale. Quei programmi sono gli stessi che hanno ridotto la Grecia nelle condizioni economiche in cui è oggi.
Si dice che il movimento sia stato distrutto dalla repressione di Genova. Tuttavia, durante la guerra in Iraq sono scese in piazza milioni di persone, e il referendum del 2011 è stato vinto con le parole d’ordine di quegli anni. È davvero tramontato dunque?
Nel 2000-2001 il Forum sociale mondiale che nasce a Porto Alegre realizza forum in Africa, in Asia, in Europa e in America Latina. I poteri forti hanno avuto paura del consenso e della crescita di questo movimento, che otteneva consensi anche in settori molto diversi fra loro, non solo dentro la sinistra. In Italia, all’epoca anche Famiglia cristiana, settimanale sicuramente non interno al movimento, ha verificato, attraverso diverse inchieste, l’enorme consenso trasversale che raccoglievano i temi vicini al movimento.
Viene quindi deciso di reprimerlo duramente: prima a Praga, in occasione di un vertice internazionale, poi a Napoli, con un governo di centro-sinistra, nel marzo 2001, e infine a Genova, dove si raggiunge l’apice. L’obiettivo è distruggere materialmente il movimento, criminalizzarlo e screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica. C’è addirittura chi chiede che il Genoa social forum sia dichiarato associazione sovversiva, per fortuna i magistrati si rifiutano di compiere una simile follia. I media tentano di addebitare al movimento le violenze di Genova e tentano di sovrapporre il movimento e i Black bloc. Nonostante fosse stato ampiamente dimostrato che questi erano per noi degli avversari.
Il movimento è stato vittima delle forze dell’ordine, alla Diaz e a Bolzaneto. È stato vittima, nel corteo delle Tute bianche, di quella che i magistrati hanno definito: una carica «inutile e ingiustificata». Nonostante la repressione il movimento in Italia rimane forte fino al 15 febbraio del 2003, quando tre milioni di persone scendono in piazza a Roma contro la guerra in Iraq. Da lì è cominciata la sua fase calante.
Per quali ragioni?
Le ragioni sono tante: di fronte ai processi abbiamo dovuto spostare tempo e risorse per difenderci nelle aule dei tribunali, distogliendo l’attenzione da quelli che erano i grandi temi del movimento. Inoltre, la criminalizzazione ha spaventato quei settori dell’associazionismo, prevalentemente cattolico, che avevano aderito al Genoa social forum, molto composito al suo interno. Tali realtà non erano abituate a subire la repressione e molti si sono ritirati.
Però le idee allora seminate non sono scomparse, hanno lavorato sotto traccia: la vittoria nel referendum del 2011 in difesa dell’acqua pubblica trova le sue radici nel movimento di Genova. Nonostante ciò quel movimento ha perso forza ed efficacia. Noi non siamo stati capaci di far comprendere con parole semplici ai cittadini che esisteva una relazione tra quanto noi denunciavamo a livello globale e quello che il cittadino pagava nel quotidiano. Ad esempio, il fatto che le aziende venissero spostate in Romania piuttosto che nell’Estremo oriente era frutto di quei meccanismi di formazione del mercato globale e della sua progressiva finanziarizzazione che come conseguenza ha prodotto, in particolare in occidente, la perdita di numerosissimi posti di lavoro. Per fare un altro esempio: noi non siamo riusciti a spiegare come l’aumento del costo del cibo fosse legato ad alcuni meccanismi di speculazione finanziaria. Quando è arrivata la crisi che noi avevamo compreso prima di tutti, la popolazione ha trovato più facile seguire il populismo di destra.
In alcuni Paesi europei si è provato a creare una mobilitazione, pensiamo a Syriza, Podemos, e Nuit debout. In Italia no, perché?
In Italia alcuni fenomeni si sono sviluppati precedentemente. Un movimento così forte e diffuso come quello che noi abbiamo avuto nel 2001 non c’è stato negli altri Paesi europei. Noi abbiamo avuto la nascita della Lega Nord prima di altri partiti xenofobi in Europa. Per certi versi alcuni dei fenomeni a cui assistiamo oggi (l’avanzata del populismo, la repressione) da noi sono avvenuti prima. Però noi paghiamo comunque lo stesso prezzo degli altri. Le politiche di austerità non fanno altro che impoverire un numero sempre più alto di cittadini e provocano la distruzione del ceto medio; ed infatti oggi, per fare un solo esempio, il 46% del popolo italiano ha rinunciato, per ragioni economiche, ad almeno una cura medica.
Le radici di Syriza stanno pienamente dentro la vicenda genovese, questo i dirigenti di Syriza lo hanno sempre detto: Tsipras era sulla nave che nel luglio 2001 trasportava gli attivisti greci ad Ancona da dove poi avrebbero dovuto raggiungere Genova. Ma non vi arrivarono mai: la polizia italiana li caricò quand’erano ancora in porto, prima che riuscissero a toccare terra. Così come Podemos: anche i suoi leader erano a Genova. Ovviamente poi c’è stata un’evoluzione.
Qual è la lezione che arriva dalla Grecia? Che un movimento, in un solo Paese non ce la può fare. Abbiamo bisogno di un grande movimento globale, sovranazionale perché oggi l’avversario è sovranazionale. Le politiche di austerità contro le quali si sta battendo il movimento francese sono sì politiche nazionali, ma sono simili alle politiche che ci sono in Grecia, in Italia e in Portogallo. Lo scenario è globale. Il problema è che noi oggi non riusciamo ad organizzare una risposta significativa e capace di travalicare i confini di un singolo Paese.
Oggi i cittadini europei stanno pagando le scelte che i governi hanno fatto quindici anni fa quando hanno represso quel grande movimento che aveva compreso quello che sarebbe accaduto se il modello di sviluppo dominante non fosse stato modificato in profondità. Se ci avessero ascoltato oggi non saremmo travolti da questa tremenda crisi economica e sociale. A Genova dicevamo che non era accettabile che il 20% della popolazione controllasse l’80% delle risorse mondiali. Oggi l’8,7% controlla l’86% della ricchezza, siamo in un mondo che è molto più ingiusto di quello che denunciavamo allora.
Quanto pesa, oggi, l’assenza di un movimento globale come quello del 2001?
L’assenza di un movimento globale antiliberista ha lasciato lo spazio perché si sviluppassero movimenti populisti, razzisti, xenofobi e di estrema destra.
L’impegno delle forze politiche ed economiche nel distruggere il movimento del 2001, nel lasciare che le primavere arabe del 2010/2011 e i movimenti giovanili che in Turchia si erano opposti a Erdogan venissero schiacciati, ha aperto la strada da un lato ai populismi, dall’altro al terrorismo integralista. Oggi l’ unica alternativa politica possibile, in una parte dei Paesi della sponda sud ed orientale del Mediterraneo, pare essere tra il governo militare e l’integralismo religioso. Il soggetto che manca è proprio un movimento forte e globale; coloro che hanno distrutto quello che si era sviluppato nel primo decennio degli anni 2000 dovrebbero sentirsi almeno corresponsabili della situazione attuale.
Il movimento altermondialista era l’unica alternativa che avrebbe potuto garantire un cambiamento tale da assicurare a tutti un futuro e una coesistenza pacifica.