«Si torna a Ventotene – aveva detto il premier italiano giorni fa – per ripartire con l’Europa dei valori e della cultura. Il compito dell’Europa è quello di rendere più bello il mondo» così ha detto il premier Renzi parlando del vertice trilaterale che lunedì 22 agosto vedrà riuniti a Ventotene Matteo Renzi, Angela Merkel e Francois Hollande. E anche se il vertice non si terrà propriamente sull’isola, ma sulla nave Garibaldi in mare aperto di fronte alle isole pontine, la scelta di Ventotene rimane altamente simbolica perché è qui che è nata l’Europa. Ed è qui che l’Europa di oggi, quella dei muri, dell’austerity e della Troika, si confronta con il progetto di Altiero Spinelli che quest’Europa l’aveva sognata diversa. Di tutto questo parleremo sul numero di Left in edicola dal 20 agosto. E qui, ripercorrendo la storia del famoso manifesto di Ventotene. Si torna a Ventotene, dunque.
«In quegli anni, in quel luogo nacqui una seconda volta», scrive Altiero Spinelli del suo soggiorno a Ventotene come confinato. Il suo pensiero europeista che covava già da tempo si affinò, anche grazie alle discussioni con Eugenio Colorni e Ernesto Rossi. Nel 1941 insieme a quest’ultimo scrive 22 paginette che diventeranno celebri: Per un’Europa libera e unita, progetto per un manifesto. Fu Ursula Hirschmann, moglie di Colorni – e poi, dopo la sua morte, di Spinelli – a far uscire lo scritto clandestinamente, si narra ancora nell’isola, cucendo i fogli dentro una spallina dell’abito. All’inizio venne diffuso ciclostilato, poi nel 1944 la prima edizione con la prefazione di Eugenio Colorni.
Nel Manifesto Spinelli e Rossi constatano il fallimento delle Nazioni come stati indipendenti. La guerra con i suoi orrori era sotto gli occhi di tutti. «La nazione non è ora più considerata come lo storico prodotto della convivenza di uomini… ma è divenuta un’entità divina», si legge nelle prime pagine del Manifesto. Per cui l’essere umano non è più «un autonomo centro di vita». E anche il comunismo, seppur più efficace per rovesciare situazioni di totalitarismo non viene visto come una garanzia per il futuro perché abbraccia solo la classe operaia. Il loro sguardo è estremamente laico. Che fare, allora? C’è un’unica soluzione: puntare sui poteri sovranazionali degli Stati a cui deve dar vita il movimento federalista.
Un movimento che non dovrà mai diventare partito, scrive Colorni nella prefazione del 1944, ma agire all’interno dei vari partiti. «Un vero movimento rivoluzionario, dovrà sorgere da coloro che han saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà saper collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, e in genere con quanti cooperino alla disgregazione del totalitarismo», specificano Spinelli e Rossi. A proposito dei “compiti del dopoguerra”, il terzo capitolo del Manifesto, si legge che deve riprendere «il processo storico contro la diseguaglianza e i privilegi sociali». La collettivizzazione socialista però non basta, «la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio». Quindi nazionalizzare i servizi pubblici sì, così come servono una riforma agraria e una industriale con estensione della proprietà ai lavoratori e la promozione di cooperative.
Nel Manifesto si ribadisce il ruolo della scuola pubblica che deve garantire i livelli superiori a tutti gli idonei, indipendentemente dal loro censo. La liberazione dei lavoratori, scrivono Spinelli e Rossi, deve far sì che questi non ricadano «in balìa della politica economica dei sindacati monopolistici». I lavoratori devono essere liberi di scegliere i loro fiduciari. Per quanto riguarda l’Italia, nel Manifesto di Ventotene c’è un punto che non è molto conosciuto: il rapporto con la Chiesa. «Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza con il fascismo andrà senz’altro abolito per affermare il carattere puramente laico dello stato», mentre tutte le «credenze religiose» devono essere rispettate. Il Manifesto termina con un appello a «saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge».
Come si vede, un’analisi lucida dei problemi che stava vivendo l’Europa con la proposizione di soluzioni. Come scrive Colorni nella prefazione, la lontananza dalla vita politica attiva permetteva uno sguardo più distaccato «e consigliava di rivedere le posizioni tradizionali». Ma non si trattava solo di rivedere gli errori del passato, non era una semplice autocritica, c’era l’intento, in quei prigionieri politici in esilio, di «rinunciare i termini dei problemi politici con mente sgombra da preconcetti dottrinari o da miti di partito». Una condizione lontana mille anni luce da quella che stiamo vivendo adesso, nell’Europa dei mille steccati ideologici.
Dell’Europa di Ventotene si parla anche su Left in edicola dal 20 agosto