La Turchia ha invaso il campo siriano, con carri armati, uomini e bandiere. La missione si chiama “scudo dell’Eufrate”, perché per il leader turco il Pkk è come l’Is. Perché dice è «sempre terrorismo»

Alea iacta est. Non è il Rubicone ma l’Eufrate di guerra al quinto anno di morte siriana. Eppure il dado è tratto. Il nuovo fronte del conflitto non ha più il suo convitato di pietra compiacente e segreto, una Turchia che fino a una settimana fa aveva permesso transito di uomini e rifornimenti sul suo territorio verso il Califfato. Erdogan ha invaso il campo siriano, con carri armati, uomini e bandiere. La guerra che fino a questo momento ha condotto contro i curdi all’interno del suo stesso Stato ha varcato ufficialmente i suoi confini. L’operazione con cui è stato dato il via all’offensiva per conquistare la città di Jarablus insieme all’Esercito Siriano Libero, si chiama “scudo dell’Eufrate”.

Il secondo esercito della Nato, quello turco, ha lasciato traccia sul terreno dei cingolati che hanno varcato il confine in uno dei punti dei condivisi 900 chilometri al confine tra la guerra aperta di Siria e la guerra intestina di Turchia. «Non c’è differenza tra Pkk, Ypg e Is»: Erdogan lo aveva detto prima di inviare i militari sul campo, promettendo di rimanere lì «finché il terrorismo non costituirà più una minaccia per il Paese». «Non cambia da dove proviene il terrorismo, se da Gulen o dal Pkk», il partito dei lavoratori del Kurdistan, che per lo Stato turco è un’organizzazione terroristica.

In Siriaq nessuno vince, ma l’importante è che tutti perdano. Gli alawiti e gli sciiti non conquistano potere ma nemmeno gli sciiti uniti lo guadagnano. La fanteria di terra curda, testa d’ariete degli americani che al loro posto li supporta boots on the ground, viene colpita per la prima volta dai lealisti di Assad via aerea e ora dai turchi. Caccia russi e americani si incrociano tra le nuvole. Tutti sono in Siria non perché sperino nella loro vittoria, ma piuttosto nella sconfitta dell’avversario. E da Hasakah a Damasco ognuno ne ha uno, giurato e storico in una Siria sommersa di bombe, macerie e civili rimasti uccisi in una guerra ormai solo degli altri.

Tutte le alleanze che c’erano si sovrappongono fino ad annullarsi. Più che amici in trincea di guerra, ci sono sponsor, che cambiano bandiera in una manciata di ore. Nel risiko degli attori militari della Siria 2016 il totale è maggiore della somma delle sue sempre più tragiche parti: oggi, se la sponda tra Turchia e Iraq in Siria rimane in mano curda, da Karkamis a Raqqa, fino a Deir Ezzor è ancora in piedi il minuscolo impero dello Stato islamico. Aleppo, Palmira e Damasco sono difese dagli alfieri di Assad, affiancati dagli hezbollah libanesi e dai miliziani iraniani. I ribelli siriani, insieme ai soldati turchi, assediano i confini. Dopo il varo dell’operazione Euphrate shield, il bilancio dei morti è di un soldato turco e 25 militari curdi. Ci sono stati molti feriti mentre un esercito della Nato – quello turco – combatteva contro le Sdf, Syrian Democratic Forces, di cui fa parte lo Ypg, supportate dagli Usa, dalla Nato stessa. I turchi ora puntano a Manbij, appena riconquistata dall’Is dove il sangue delle milizie dello Ypg è stato versato. È Salih Muslin, del Pyd, partito politico dello Ypg, a suggerire addirittura un accordo tra gli uomini neri dell’Is e le divise sui tank sabbia di Erdogan per allontanarsi dai territori e cederli senza combattere nelle mani dei neo ottomani.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 3 settembre

 

SOMMARIO ACQUISTA