Ieri il Consiglio dei ministri ha approvato la NaDEF 2016. La crescita dell'1,6 prevista nell'autunno del 2015 oggi è stata ridotta a 0,8%. Risultati così modesti tuttavia non sono solo il risultato di fatti oggettivi, ma anche della linea economica del governo

Il Consiglio dei ministri ha approvato la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NaDEF) 2016 con le nuove previsioni sull’economia e la programmazione per gli anni futuri. Rivedute al ribasso le stime di crescita per quest’anno: solo lo 0,8 per cento contro l’1,2% previsto ad aprile. Il bilancio pubblico segnerà quest’anno un meno 2,4% del Pil. Per il 2017 il deficit viene programmato al 2%, ma il governo dovrebbe riuscire a spuntare un altro 0,4% per finanziare le emergenze: terremoto e immigrazione. Sarebbe un risultato non piccolo considerando che l’impegno con l’Ue era di portare il deficit all’1,8% e che ormai le clausole di “flessibilità” erano già state sfruttate, ma molto meno di quello che servirebbe a far riprendere l’economia.
Continua così l’austerity “light” – meno light per noi e più per altri (come Spagna e Portogallo) – che si inserisce in prospettive di crescita sempre più asfittiche. Nell’autunno del 2015 il governo aveva previsto una crescita dell’1,6% nel 2016, poi abbassata all’1,2% in aprile e oggi, come dicevamo, ulteriormente ridotta a 0,8%. Per il 2017 le previsioni partono dall’1% (erano all’1,4% ad aprile), ma c’è da aspettarsi che la sfiducia crescente sul nostro settore bancario e i riflessi delle tensioni intra-Ue porteranno il dato finale sensibilmente al di sotto di questa previsione.

Risultati così modesti tuttavia non sono solo il risultato di fatti oggettivi, ma anche della linea economica del governo, tutta incentrata alla riduzione delle tasse e non all’aumento della spesa, che ha moltiplicatori maggiori e quindi potrebbe aiutare il paese a crescere. Renzi ha infatti puntato tutto su “bonus” e sconti fiscali ad hoc (tra cui i famosi 80 euro) peraltro non permanenti, e quindi dall’effetto effimero. In più gran parte della manovra di finanza pubblica è incentrata sull’evitare che scattino le “clausole di salvaguardia”, cioè gli aumenti di imposte (in particolare l’Iva) che si attiverebbero automaticamente nel caso vengano mancati gli obiettivi di finanza pubblica. Dei 25 miliardi di interventi previsti per il 2017, infatti, il 60% è devoluto a questo obiettivo. Il che in soldoni significa ridurre le spese per evitare che aumentino le tasse, con un effetto netto che risulterà comunque recessivo. Lo stesso Renzi pare essere cosciente degli errori che ha commesso quando parla di dimezzamento degli investimenti pubblici quale causa del perdurare della crisi. Ma a parte le parole, anche quest’anno la politica economica sarà indirizzata verso la riduzione della spesa.

Nonostante i proclami altisonanti dei giorni scorsi, insomma, la coppia Renzi-Padoan decide di allinearsi alle richieste dell’Ue, trattando sui decimali. Il che significa che di tutte le promesse fatte (“Casa Italia”, flessibilità sul pensionamento, i 13 miliardi promessi da Calenda per l’industria 4.0, e l’ultima, il Ponte di Messina) si riuscirà a salvare ben poco. C’era un’altra strada? Molti ritengono che il governo dovrebbe semplicemente ignorare le richieste della Commissione e aprire un conflitto politico con l’Ue per ottenere non una occasionale flessibilità, ma margini ampi, almeno pari a quelli di fatto concessi ad altri paesi periferici (e in parte anche alla Francia). Forse, avranno pensato Renzi e Padoan, le condizioni politiche non sono ancora mature per una sfacciata disubbidienza. E però se nessuno prenderà presto l’iniziativa il rischio è che ci si trascini ancora nella stagnazione, per poi scoprire tra non troppo che i deficit serviranno comunque per salvare il sistema bancario debilitato da 8 anni di crisi.