Nel 2001 la “battaglia di Wamat” fu uno dei più violenti scontri a fuoco per i soldati Usa che avevano invaso l’Afghanistan per “liberarlo” dai talebani. Le cronache descrivevano quell’area del Nuristan come una delle più pericolose enclave di Al-Qaida. «Eppure, mentre avveniva quello scrontro mortale a pochi chilometri di distanza in linea d’aria, un insegnante greco, Athanasios Leroinis, dormiva pacificamente. Pur essendo straniero era stato accolto nella festa locale in onore del solstizio», racconta Gerard Russell che per vent’anni ha studiato le culture e le religioni, (molte delle quali pagane) minacciate dai fondamentalisti in Medio Oriente e in Afghanistan, dove in passato ha avuto incarichi diplomatici da parte del governo britannico e delle Nazioni Unite. Il professore greco fu accettato alla festa dopo aver sacrificato alcune capre agli dei e dee che popolano il pantheon del popolo kalasha. Bevve vino e il forte brandy di produzione locale e poi ballò tutta la notte con le donne in costumi tradizionali gialli e rossi e cappelli decorati con conchiglie. Formavano cerchi intorno agli uomini, ondeggiando al ritmo del canto. Eppure si trovavano nel centro geografico dell’Islam più radicale, fa notare Russell. Athaniosis si era trovato a vivere fra gli ultimi pagani del Pakistan. In una zona impervia dell’Afghanistan vicina al confine, una valle circondata da montagne che avevano protetto le tribù locali dagli invasori, fin dai tempi di Alessandro Magno. E poi da Tamerlano e da incauti missionari cattolici che avrebbero voluto convertire le popolazioni autoctone. Nel XVIII secolo alcuni di loro si erano avventurati nell’Hindu Kush, racconta Russell nel libro Regni dimenticati (Adelphi); arrivati nella regione del Kafiristan uno di loro fu ucciso perché scambiato dai bellicosi kafir delle montagne per “uno spirito maligno”. I Kafir sono ancora oggi suddivisi in molti clan e i Kalasha sono un sotto gruppo molto particolare. «Sono sopravvissuti a molte minacce perché vivevano in aree molto isolate, difficilissime da raggiungere», ci spiega Gerard Russell. «Lo stesso è accaduto agli Yazidi, oggi non solo nel mirino dei miliziani dell’Isis, ma molto a rischio anche perché sono stati sospinti in zone di conflitto vicino al confine curdo. Nei secoli gli Yazidi hanno subito innumerevoli attacchi. Anche l’impero ottomano cercò di sterminarli. Sono sempre riusciti a scamparla perché si nascondevano in grotte e altri luoghi segreti». Parliamo di centinaia di migliaia di persone distribuite fra l’Iraq settentrionale e alcune zone della Siria, della Georgia, dell’Armenia settentrionale. Gli Yazidi professano una religione sincretistica caratterizzata da curiosi divieti come quello di indossare vestiti blu. Gli uomini devono portare i baffi. Credono nella reincarnazione, offrono i tori alla divinità, mentre venerano i pavoni. La leggenda che fossero adoratori del diavolo è stata spesso usata come “giustificazione” per attaccarli. «Ciò che colpisce e che gli yazidi tengono molto alla propria identità culturale, anche se la loro religione, come quella di altri popoli che ho raccontato in questo libro, è esoterica, dunque segretissima. Non c’è una precisa teologia e molti di loro non sanno che cosa insegnano gli antichi riti, ma si sentono ugualmente parte di quella collettività, di quella tradizione, e vogliono continuare ad esserne parte, come se questo fosse un elemento di “forza”, per loro è un orgoglio». Tanto che Russell racconta di aver incontrato insospettabili mandei, drusi ecc. fra giovani professionisti “in giacca e cravatta” e ben inseriti nella società occidentale trovandoli ancora legatissimi alla loro cultura di origine. Il massimo della sorpresa, dice Russell (che parla correntemente più lingue, fra cui l’arabo e il persiano) fu quando, in un mercato di Detroit sentì una signora parlare in aramaico, la lingua franca del Medio Oriente in epoca pre islamica. Nel 2009 in un Caffè di Manhattan, invece, incontrò una giovane donna mandea di nome Nadia Gattan. Veniva dall’Inghilterra dove aveva avuto asilo. Cresciuta in una famiglia benestante e laica di Bagdad si definiva una irachena sfegatata («emotiva e passionale non come gli europei») ma anche mandea, appartenente a una tradizione che si era sviluppata nelle zone paludose dell’Iraq dove vissero gli ultimi babilonesi. Ma la religione mandea è monoteista e con molte anologie con il cristianesimo. I Mandei credono in Adamo, ma rifiutano Abramo. Mentre il rito del battesimo viene praticato con un’immersione rituale nel fiume Tigri. Di fatto per lunghi periodi di tempo culture e religioni differenti sono coesistite in Medio Oriente avendo molti rapporti di scambio. Accadde anche nella latinità pagana che ospitò il culto di Mitra, poi sussunto dal cristianesimo, e quello esoterico di Iside che prevedeva il sesso rituale come iniziazione. A Roma arrivò anche Eliogabalo dalla siriana Homs portando un meteorite nero per il tempio latino più grande. Divenne imperatore nel III secolo e sostituì il culto di Giove con quello del Dio sole. I Drusi in Libano, invece, adoravano l’Uno, «assolutamente senza tempo e privo di imperfezioni umane». Di derivazione pitagorica questo e altri antichi culti pagani furono in gran parte spazzati via dal Cristianesimo, una volta diventato religione di Stato. «Non so se si possa dire che l’Islam sia stato tollerante in passato. Lo stesso vale per il Cristianesimo», risponde Gerard Russell quando gli chiediamo della particolare ferocia con cui i cristiani si scagliarono contro i pagani e i loro templi nel IV secolo. «Io penso che tutte le religioni abbiano le stesse forme di violenza. Per quanto possa apparire tollerante, una religione monoteista presenta sempre dei momenti in cui emerge l’idea di uccidere nel nome di Dio. A volte anche a livello “popolare”, non solo dei capi. Pensiamo per esempio a quel che accadde ad Alessandria di Egitto, quando incitati dal vescovo Cirillo, gruppi di cristiani uccisero la filosofa neoplatonica Ipazia». E non meno crudele è oggi l’Isis, sottolinea l’ex diplomatico che dopo la laurea ad Oxford è diventato ricercatore al Carr Center for Human Rights della Harvard Kennedy School. «Anche se per lunghi periodi minoranze di religione differente vissero fianco a fianco in Medio Oriente, anche se gli Ottomani non obbligavano alla conversione popoli conquistati (che così pagavano più tasse), in generale i religiosi pretendono che tutto il mondo diventi credente», afferma l’autore di Regni dimenticati. La storia dice però che nelle regioni irachene i pagani continuarono ad essere più numerosi dei monoteisti anche dopo la conquista musulmana. «L’Islam non aveva un impero» commenta Russell. «Con il Cristianesimo l’impero romano divenne un governo molto funzionale e impose il monoteismo in modo assai efficiente. Non accadde lo stesso nel mondo musulmano. Gli arabi non cercarono di interferire con la religione altrui per molti secoli, anche perché non ne avevano la forza». Quanto all’attualità, per cercare di capire cosa sta accadendo nel mondo arabo, Gerard Russell invita ad osservare in primis due fenomeni: «Il primo è che cento o duecento anni fa il mondo arabo era molto più inclusivo dell’Europa. Il secondo è che il Medio Oriente ha fatto un balzo indietro molto preoccupante negli ultimi quaranta o cinquant’anni. In periodi di guerra e di conflitti le religioni si radicalizzano, prendono alla lettera il testo sacro, sbandierato come giustificazione per attaccare “gli infedeli”. Fino agli anni Cinquanta del Novecento potevamo essere ottimisti riguardo alla possibilità di superare una volta per tutte il fondamentalismo religioso; la fiducia veniva dalla scuola, dalla politica che tentava di smontare l’odio verso culture diverse. Oggi sembra di essere piombati nel medioevo». Anche la distruzione del patrimonio artistico da parte dell’Isis rientra in questo quadro? «Il problema è sempre lo stesso: i fondamentalisti dell’Isis pretendono che la condanna degli idoli venga presa in senso letterale. Ma la maggior parte dei musulmani non la pensa così, sono orgogliosi di essere siriani o iracheni e vogliono preservare il proprio patrimonio artistico. È un grosso problema quando arriva qualcuno che dice: abbiamo trovato nel libro sacro la giustificazione per quello che stiamo facendo. Nella furia distruttiva di questi estremisti vedo la fine della fiducia nello Stato, la volontà lucida di distruggere le nazioni più “liberali” e il loro patrimonio culturale. L’unica cosa che deve esistere è l’Ilslam. In questo senso dico che mi sembra una questione molto politica. Il punto è che le iniziative democratiche sono state pigre, estremamente deboli». Il risultato, conclude l’ex diplomatico, è quello che vediamo: «Un mondo arabo molto frammentato e diviso da laceranti conflitti»

Nel 2001 la “battaglia di Wamat” fu uno dei più violenti scontri a fuoco per i soldati Usa che avevano invaso l’Afghanistan per “liberarlo” dai talebani. Le cronache descrivevano quell’area del Nuristan come una delle più pericolose enclave di Al-Qaida. «Eppure, mentre avveniva quello scrontro mortale a pochi chilometri di distanza in linea d’aria, un insegnante greco, Athanasios Leroinis, dormiva pacificamente. Pur essendo straniero era stato accolto nella festa locale in onore del solstizio», racconta Gerard Russell che per vent’anni ha studiato le culture e le religioni, (molte delle quali pagane) minacciate dai fondamentalisti in Medio Oriente e in Afghanistan, dove in passato ha avuto incarichi diplomatici da parte del governo britannico e delle Nazioni Unite. Il professore greco fu accettato alla festa dopo aver sacrificato alcune capre agli dei e dee che popolano il pantheon del popolo kalasha. Bevve vino e il forte brandy di produzione locale e poi ballò tutta la notte con le donne in costumi tradizionali gialli e rossi e cappelli decorati con conchiglie. Formavano cerchi intorno agli uomini, ondeggiando al ritmo del canto. Eppure si trovavano nel centro geografico dell’Islam più radicale, fa notare Russell. Athaniosis si era trovato a vivere fra gli ultimi pagani del Pakistan. In una zona impervia dell’Afghanistan vicina al confine, una valle circondata da montagne che avevano protetto le tribù locali dagli invasori, fin dai tempi di Alessandro Magno. E poi da Tamerlano e da incauti missionari cattolici che avrebbero voluto convertire le popolazioni autoctone. Nel XVIII secolo alcuni di loro si erano avventurati nell’Hindu Kush, racconta Russell nel libro Regni dimenticati (Adelphi); arrivati nella regione del Kafiristan uno di loro fu ucciso perché scambiato dai bellicosi kafir delle montagne per “uno spirito maligno”. I Kafir sono ancora oggi suddivisi in molti clan e i Kalasha sono un sotto gruppo molto particolare. «Sono sopravvissuti a molte minacce perché vivevano in aree molto isolate, difficilissime da raggiungere», ci spiega Gerard Russell.

«Lo stesso è accaduto agli Yazidi, oggi non solo nel mirino dei miliziani dell’Isis, ma molto a rischio anche perché sono stati sospinti in zone di conflitto vicino al confine curdo. Nei secoli gli Yazidi hanno subito innumerevoli attacchi. Anche l’impero ottomano cercò di sterminarli. Sono sempre riusciti a scamparla perché si nascondevano in grotte e altri luoghi segreti». Parliamo di centinaia di migliaia di persone distribuite fra l’Iraq settentrionale e alcune zone della Siria, della Georgia, dell’Armenia settentrionale. Gli Yazidi professano una religione sincretistica caratterizzata da curiosi divieti come quello di indossare vestiti blu. Gli uomini devono portare i baffi. Credono nella reincarnazione, offrono i tori alla divinità, mentre venerano i pavoni. La leggenda che fossero adoratori del diavolo è stata spesso usata come “giustificazione” per attaccarli.
«Ciò che colpisce e che gli yazidi tengono molto alla propria identità culturale, anche se la loro religione, come quella di altri popoli che ho raccontato in questo libro, è esoterica, dunque segretissima. Non c’è una precisa teologia e molti di loro non sanno che cosa insegnano gli antichi riti, ma si sentono ugualmente parte di quella collettività, di quella tradizione, e vogliono continuare ad esserne parte, come se questo fosse un elemento di “forza”, per loro è un orgoglio».
Tanto che Russell racconta di aver incontrato insospettabili mandei, drusi ecc. fra giovani professionisti “in giacca e cravatta” e ben inseriti nella società occidentale trovandoli ancora legatissimi alla loro cultura di origine. Il massimo della sorpresa, dice Russell (che parla correntemente più lingue, fra cui l’arabo e il persiano) fu quando, in un mercato di Detroit sentì una signora parlare in aramaico, la lingua franca del Medio Oriente in epoca pre islamica.
Nel 2009 in un Caffè di Manhattan, invece, incontrò una giovane donna mandea di nome Nadia Gattan. Veniva dall’Inghilterra dove aveva avuto asilo. Cresciuta in una famiglia benestante e laica di Bagdad si definiva una irachena sfegatata («emotiva e passionale non come gli europei») ma anche mandea, appartenente a una tradizione che si era sviluppata nelle zone paludose dell’Iraq dove vissero gli ultimi babilonesi. Ma la religione mandea è monoteista e con molte anologie con il cristianesimo. I Mandei credono in Adamo, ma rifiutano Abramo. Mentre il rito del battesimo viene praticato con un’immersione rituale nel fiume Tigri.
Di fatto per lunghi periodi di tempo culture e religioni differenti sono coesistite in Medio Oriente avendo molti rapporti di scambio. Accadde anche nella latinità pagana che ospitò il culto di Mitra, poi sussunto dal cristianesimo, e quello esoterico di Iside che prevedeva il sesso rituale come iniziazione. A Roma arrivò anche Eliogabalo dalla siriana Homs portando un meteorite nero per il tempio latino più grande. Divenne imperatore nel III secolo e sostituì il culto di Giove con quello del Dio sole.
I Drusi in Libano, invece, adoravano l’Uno, «assolutamente senza tempo e privo di imperfezioni umane». Di derivazione pitagorica questo e altri antichi culti pagani furono in gran parte spazzati via dal Cristianesimo, una volta diventato religione di Stato. «Non so se si possa dire che l’Islam sia stato tollerante in passato. Lo stesso vale per il Cristianesimo», risponde Gerard Russell quando gli chiediamo della particolare ferocia con cui i cristiani si scagliarono contro i pagani e i loro templi nel IV secolo. «Io penso che tutte le religioni abbiano le stesse forme di violenza. Per quanto possa apparire tollerante, una religione monoteista presenta sempre dei momenti in cui emerge l’idea di uccidere nel nome di Dio. A volte anche a livello “popolare”, non solo dei capi. Pensiamo per esempio a quel che accadde ad Alessandria di Egitto, quando incitati dal vescovo Cirillo, gruppi di cristiani uccisero la filosofa neoplatonica Ipazia». E non meno crudele è oggi l’Isis, sottolinea l’ex diplomatico che dopo la laurea ad Oxford è diventato ricercatore al Carr Center for Human Rights della Harvard Kennedy School.
«Anche se per lunghi periodi minoranze di religione differente vissero fianco a fianco in Medio Oriente, anche se gli Ottomani non obbligavano alla conversione popoli conquistati (che così pagavano più tasse), in generale i religiosi pretendono che tutto il mondo diventi credente», afferma l’autore di Regni dimenticati. La storia dice però che nelle regioni irachene i pagani continuarono ad essere più numerosi dei monoteisti anche dopo la conquista musulmana. «L’Islam non aveva un impero» commenta Russell. «Con il Cristianesimo l’impero romano divenne un governo molto funzionale e impose il monoteismo in modo assai efficiente. Non accadde lo stesso nel mondo musulmano. Gli arabi non cercarono di interferire con la religione altrui per molti secoli, anche perché non ne avevano la forza». Quanto all’attualità, per cercare di capire cosa sta accadendo nel mondo arabo, Gerard Russell invita ad osservare in primis due fenomeni: «Il primo è che cento o duecento anni fa il mondo arabo era molto più inclusivo dell’Europa. Il secondo è che il Medio Oriente ha fatto un balzo indietro molto preoccupante negli ultimi quaranta o cinquant’anni. In periodi di guerra e di conflitti le religioni si radicalizzano, prendono alla lettera il testo sacro, sbandierato come giustificazione per attaccare “gli infedeli”. Fino agli anni Cinquanta del Novecento potevamo essere ottimisti riguardo alla possibilità di superare una volta per tutte il fondamentalismo religioso; la fiducia veniva dalla scuola, dalla politica che tentava di smontare l’odio verso culture diverse. Oggi sembra di essere piombati nel medioevo».
Anche la distruzione del patrimonio artistico da parte dell’Isis rientra in questo quadro? «Il problema è sempre lo stesso: i fondamentalisti dell’Isis pretendono che la condanna degli idoli venga presa in senso letterale. Ma la maggior parte dei musulmani non la pensa così, sono orgogliosi di essere siriani o iracheni e vogliono preservare il proprio patrimonio artistico. È un grosso problema quando arriva qualcuno che dice: abbiamo trovato nel libro sacro la giustificazione per quello che stiamo facendo. Nella furia distruttiva di questi estremisti vedo la fine della fiducia nello Stato, la volontà lucida di distruggere le nazioni più “liberali” e il loro patrimonio culturale. L’unica cosa che deve esistere è l’Ilslam. In questo senso dico che mi sembra una questione molto politica. Il punto è che le iniziative democratiche sono state pigre, estremamente deboli». Il risultato, conclude l’ex diplomatico, è quello che vediamo: «Un mondo arabo molto frammentato e diviso da laceranti conflitti»