La presa di Mosul, descritta come il colpo definitivo al Califfato in Iraq è cominciata. Assisteremo a settimane di battaglia oppure a una rapida ritirata strategica dei miliziani dell’Isis? Non lo sappiamo. Certo è che perdere il gioiello sulla corona del Califfato sarà uno scacco enorme per un progetto politico il cui appeal è cresciuto anche e molto per la capacità di occupare materialmente del territorio a cavallo dei confini statali. Ma da mesi ormai – che ne siamo accorti in Europa – l’Isis ha in parte cambiato strategia, concentrandosi meno sul territorio e più sulla strategia terroristica in giro per il mondo.
E puntando ad acuire quel conflitto tra le due grandi famiglie dell’Islam che ne ha fatto la fortuna fin dalle origini. La verità è che la presa di Mosul, come ogni altro passaggio chiave della vita politica e militare di quella regione del mondo a partire dal 2001, presenta enormi incognite e pericoli che potrebbero avere conseguenze altrove. Il primo pericolo – in maniera dissimile ma non opposta a quanto succede in Siria, sia contro Assad che contro il Califfato – è rappresentato dalla eterogeneità delle forze che si muovono contro l’Isis. Volendo fare paragoni storici improbabili, dopo essere stata sconfitta da forze eterogenee, la Germania venne divisa in due per diversi decenni.
Come ruolo avranno le milizie sciite?
Nell’aprile del 2004 le truppe americane riprendevano Falluja dalle milizie sunnite. Quella battaglia, nella quale morirono centinaia di civili segnò un punto di non ritorno dal disastro americano in Iraq. Uno dei tanti. Dopo Falluja la figura di Abu Musab al Zarqawi e al Qaeda in Iraq crebbero e con loro crebbe quella rete di ex militari dell’esercito di Saddam, milizie sunnite e combattenti stranieri che per anni fu l’incubo dei militari americani e fece cambiare di segno la guerra nel Paese: Falluja e poi Tal Afar rappresentarono il passaggio da una guerriglia anti-americana a una guerra civile sunnita-sciita fatta di guerriglia e combattimenti sanguinosi nel cosiddetto triangolo sunnita e di attentati, kamikaze e non, in tutto il resto del Paese. A cominciare da Baghdad.
La de-baathificazione dello Stato iracheno guidata da Ahmed al Chalabi, il licenziamento in tronco di decine di migliaia di persone, soprattutto sunniti, che non erano parte del regime, ma spesso dipendenti pubblici iscritti al partito Baath di Saddam Hussein per ragioni di piccola convenienza, fu un catastrofico errore dell’amministrazione Bremer e al Jaafari. E accentuò le tensioni interconfessionali.
Dopo anni sanguinosi, gli americani, dopo l’arrivo del generale Petraeus, cambiarono drasticamente strategia. Da un lato Petraeus chiese più truppe, dall’altro promosse una strategia di inclusione delle tribù sunnite, le armò e le fece partecipare alla lotta armata contro al Qaeda. La partenza degli americani e il consolidarsi del potere di Nouri al Maliki – che dal 2010 non a caso si prese l’interim di Interni e Difesa – rovesciarono progressivamente la politica americana. Maliki ottenne la maggioranza parlamentare alle elezioni solo dopo l’esclusione da parte della commissione per la de-baathificazione di molti candidati del blocco avversario, più aperto e misto. Obama lasciò correre e l’Iran lavorò e favorì per il rafforzamento del potere politico di al Maliki. Con il risultato di tornare alla fase precedente: l’esercito iracheno, composto in larga parte da ex miliziani sciiti inquadrati come soldati, si imbarcò in rappresaglie, vendette, maltrattamenti nei confronti della popolazione sunnita. I corpi dei sunniti con il cranio perforato da punte di trapano erano all’ordine del giorno a Baghdad. Maliki fece anche imprigionare qualche leader politico sunnita.
Quando gli uomini di al Baghdadi arrivarono a Mosul la popolazione non si disperò: al potere tornava un gruppo sunnita che aveva cacciato quella che veniva percepita come un’occupazione sciita. Con gli anni la simpatia per l’Isis è svanita. Ma resta il timore che l’esercito iracheno, costretto alla fuga e umiliato nel 2014, rientrando a Mosul si lasci andare a rappresaglie, repressione, maltrattamenti nei confronti dei sunniti. Le stesse pratiche che hanno rafforzato i gruppi più estremi e favorito il disegno di al Zarqawi prima e al Baghdadi poi. Americani, europei e chiunque altro dovranno vigilare e premere su Baghdad (e Teheran) perché il triangolo sunnita non ridiventi un luogo in cui la repressione da parte sciita alimenta la propaganda del Califfato.
Siria, Kurdistan, Iran, Turchia: uno scacchiere regionale complicato
Come per la Siria, nel nord dell’Iraq si giocano molte partite regionali e si combatte anche per interposta persona. Il presidente turco Erdogan ha reso noto che soldati yazidi, cristiani e turcomanni addestrati da Ankara stanno partecipando alla battaglia di Mosul e che la Turchia intende avere un posto al tavolo che discuterà il futuro della città. La preoccupazione di Ankara è la solita: impedire un ruolo centrale ai curdi che, caduta Mosul, confinerebbero con la Siria e con i gruppi dell’Ypg che fanno la guerra all’Isis dall’altra parte di quello che fu il confine. E che si troverebbero più forti in un Iraq su cui la guerra siriana sta avendo un effetto destabilizzante. Ankara e Baghdad sono ai ferri corti: soldati turchi sono sul territorio iracheno da anni, ma il governo ha chiesto che escano dal Paese. Erdogan ha invece occhieggiato alla minoranza sunnita facendosi garante di una Mosul città dalle molte identità, come prima della guerra. Il fatto che un leader regionale entri a gamba tesa nelle dispute confessionali-comunitarie irachene ha fatto indispettire non poco il governo legittimo di Baghdad.
Poi ci sono gli iraniani, impegnati a combattere con Assad in Siria, centrali in Iraq e impegnati a Mosul. Per loro la guerra al Califfato è anche una guerra inter-confessionale e parte della strategia regionale. Il capo delle Guardie della rivoluzione, Qassem Soleimani e i suoi consiglieri sono stati parte cruciale dell’offensiva (così come di quella contro Aleppo) e dalla caduta di Mosul in poi hanno fatto la spola con Baghdad per organizzare la controffensiva. In questo senso le milizie sciite – le Popular Mobilisation Forces – e la capacità iraniana di organizzarle fanno a pugni con la lentezza americana nel ricostruire l’esercito regolare iracheno. Le voci e i dispacci parlano di miliziani hezbollah, houti e altro ancora. Non è detto sia vero: la propaganda sunnita è al lavoro come quella sciita. È certo però che ci sono accordi tra Iran e Iraq per la fornitura di armi, addestratori e intelligence. Un modo come un altro per dire che le Guardie della rivoluzione islamica di Teheran sono attive sul terreno.
In teoria curdi e milizie sciite (sulla cui guida c’è braccio di ferro tra Teheran e Baghdad), dovrebbero prendere i villaggi attorno alla città per lasciare all’esercito iracheno e agli aerei americani il ruolo di prendere il centro urbano. Un modo per evitare le rappresaglie dei miliziani sciiti. In teoria doveva essere così nel giugno 2016, quando Falluja venne ripresa per la terza volta. Non andò così.
Gli stessi curdi hanno i loro disegni: rafforzare e mantenere la propria autonomia in una fase in cui gli equilibri regionali saltati e il protagonismo dell’Ypg siriano spaventano la Turchia e indispettiscono diversi altri attori.
Il destino dei miliziani dell’Isis
Infine, c’è il solito problema del “che succede dopo”. Un tema che vale per tutto il territorio controllato dal Califfato. Da quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan i fallimenti non sono mai stati quelli militari: Kabul, Baghdad, Tripoli sono cadute in fretta. Ma la battaglia di Mosul, come il caos che regna in Libia sono conseguenze di quanto non pensato al momento dell’avvio dell’offensiva. Tenere sotto controllo le milizie sciite, ricostruire istituzioni, ricostruire città sono elementi cruciali. Poi ci sono i miliziani. Dall’Afghanistan partirono migliaia di combattenti stranieri, passati per l’Iraq e, infine per la Siria. Ogni guerra su quello scacchiere ha prodotto nuove organizzazioni, gruppi, militanti per gemmazione. La sconfitta dell’Isis potrebbe rafforzare le formazioni che si rifanno ad al Qaeda.
Che fine faranno gli iracheni, siriani, giordani, egiziani, palestinesi che fuggiranno da Mosul e, tra qualche mese, da Raqqa? C’è un’idea per il controllo delle vie di fuga, per la cattura, il tentativo di interlocuire, riguadagnare i foreign fighters alla vita civile? Anche in questo caso un ruolo cruciale spetterebbe a Stati Uniti ed Europa, che potrebbero anche loro subire le conseguenze di migliaia di combattenti alla macchia e al contempo non hanno parte diretta (non così diretta) nel complesso scacchiere sciita-sunnita-curdo. L’alternativa sono migliaia di potenziali terroristi in fuga per il mondo: come ha detto il capo dell’Fbi Comey: «Nei prossimi due-cinque anni assisteremo a una diaspora terrorista senza precedenti, specie in direzione Europa»· Altra possibilità è quella di una carneficina di miliziani destinata a dare argomenti alla propaganda jihadista come già successo a ogni passaggio cruciale di quella che Bush chiamava guerra al terrore.