No, la firma non è di Pertini. È uno scarabocchio apocrifo, lo ha stabilito il Tribunale di Firenze. E quel decreto che lo radiava dall’aeronautica militare è carta straccia. Il ministero della Difesa, condannato in contumacia, nemmeno s’è preso la briga di costituirsi. Ma intanto, da 33 anni la vita del capitano Mario Ciancarella è stata sconvolta.
Era un pilota di C130, un aereo da trasporto tattico militare, in forza alla 46ma Brigata di stanza a Pisa. La sua vicenda non è scindibile dalla controinchiesta su Ustica e poi da quella sulla morte del parà Emanuele Scieri, diciannove anni dopo. E nemmeno dagli sforzi perché si faccia luce su due morti inquietanti, quella del maresciallo Dettori e del colonnello Marcucci che, con lui, cercavano di comporre il puzzle dei depistaggi sulla strage di Ustica.
Figura d’altri tempi, a pensarci ora, nell’epoca della retorica sui due marò: Ciancarella è stato un attivista del movimento per la democratizzazione delle forze armate, un «ufficiale democratico», si diceva allora. Fin dal suo ingresso nell’Accademia di Pozzuoli nell’autunno del ’69. Pochi mesi prima, diciottenne, era il leader dell’assemblea degli studenti medi di Pescara. Come lui, molti altri militari respirarono l’aria di quell’autunno caldo e presero a battersi perché le forze armate non fossero quella «beata insula incontaminata dal contagio costituzionale», come dirà nel 2000 il procuratore generale militare.
È un giorno di gennaio del ’79 quando Mario viene raggiunto in sala operativa dalla telefonata della segreteria personale di Pertini. Il Presidente vuole incontrare una delegazione degli 800 firmatari di una lettera aperta che reclamava le elezioni immediate dei Cobar, le rappresentanze di base dei lavoratori con le stellette. Contro di loro trecento generali ostili alla riforma. Uno di loro, tale De Paolis, avrebbe definito «nipotini delle Br» i militari democratici. Già nel ’76, a Livorno, Mario Ciancarella intervenne in pubblico contro il «marciume» nell’istituzione, fu denunciato e poi assolto perché venne riconosciuto il carattere “moralizzatore” delle sue parole.
La sera del 27 giugno del 1980 si consuma la strage di Ustica. Un paio di giorni dopo lo chiama il maresciallo Alberto Dettori, radarista a Grosseto, dice «Comandante, siamo stati noi!». Tre settimane dopo, Dettori avverte: «Comandante quella del Mig è una puttanata…». E fornisce degli elementi: gli orari di atterraggio e i missili a guida radar e a testata inerte. Sia quel giorno al Quirinale, sia nella controinchiesta, accanto a Mario c’è il colonnello Sandro Marcucci. Insieme scoprirono così che l’ultimo F104 torna alla base di Grosseto venti minuti dopo la strage, alle 21.20 Bravo (ora legale italiana); e che il Mig non aveva l’autonomia necessaria per arrivare da Bengasi. Doveva essere partito da qualche altra parte. […]
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