Mentre la nebbia avvolgeva le campagne che corrono tra il Mar Adriatico e le colline Faentine, nell’autunno del 1943 prese vita a Ravenna un movimento partigiano capace di sfidare le truppe di occupazione nazifasciste e, con esse, ogni convenzione e logica militare. Questo straordinario capitolo di storia rivive ancora oggi negli occhi dei partigiani e delle staffette ancora in vita, e riaffiora con forza negli sguardi determinati di molti giovani, tra cui i pronipoti. Una memoria che, così come i papaveri che tingono di rosso quelle stesse pianure, riemerge con forza nel mese di aprile.
Fotogallery del reportage di Marco Scardovi
«A quattordici anni non si prova paura». Questa l’età di Anna Domenicali, che oggi di anni ne ha 96, quando divenne staffetta partigiana e iniziò a consegnare – a rischio della propria vita – messaggi e armi attraverso le campagne di Lugo di Romagna.
Nota ai più per essere stata l’ultima capitale dell’Impero Romano d’Occidente, in seguito alla sua liberazione avvenuta nel dicembre del 1944, Ravenna rappresentò l’avamposto più avanzato delle forze alleate in Italia e, in una nazione ormai lacerata dal conflitto, divenne simbolo di una delle più innovative esperienze di collaborazione tra formazioni partigiane e truppe alleate in Europa. Tutto ebbe inizio in una piazza di Ravenna l’8 settembre 1943 quando, al diffondersi della notizia dell’armistizio tra il Governo italiano e gli Alleati, Arrigo Boldrini – destinato a diventare il leggendario comandante partigiano “Bulow” – salì sul monumento a Garibaldi ed esortò la folla a non farsi illusioni: le truppe di occupazione tedesche sarebbero arrivate e la guerra non era finita. Era anzi necessario prepararsi a combattere e resistere. Queste parole segnarono l’inizio della Resistenza ravennate.
«Bisognava decidere da che parte stare», avrebbe poi affermato Pietro Valentinotti, tipografo di Cotignola che si unì alla Resistenza dopo l’armistizio. Poche e chiare parole, che contengono l’essenza e l’imperativo morale di quel momento.
Quanto a Boldrini, in seguito al suo discorso riuscì a sfuggire all’arresto solo grazie all’intervento di Natalina Vacchi (che sarebbe poi stata impiccata dai fascisti presso il Ponte degli Allocchi undici mesi dopo), con cui fuggì in bicicletta prima di iniziare la sua attività clandestina. Iniziò così una guerra di resistenza destinata a durare venti mesi, combattuta da persone capaci di scelte straordinarie che avrebbero cambiato il corso della storia locale.
Fantasmi nella pianura: Come Boldrini sovvertì le leggi della guerriglia partigiana
In Romagna, regione caratterizzata da quella che l’ufficiale britannico Vladimir “Popski” Peniakoff definì “un’antica tradizione di indipendenza di pensiero, e di intolleranza popolare nei confronti della tirannia”, prese forma un movimento di resistenza capace di sovvertire ogni ortodossia militare.
Se la dottrina bellica convenzionale voleva infatti che le operazioni di guerriglia avessero luogo in primo luogo tra le montagne – la cui conformazione e vegetazione sono normalmente in grado di offrire naturale protezione ai combattenti – in seguito ad alcune disastrose sconfitte negli altopiani della provincia, Boldrini avanzò una proposta che apparve tanto rivoluzionaria quanto azzardata: spostare la guerriglia verso il luogo in apparenza più vulnerabile, e andare verso una “pianurizzazione” del conflitto.
Nonostante la scelta potesse apparire rischiosa, essa si rivelò vincente. Il genio strategico di Boldrini risiedeva tanto nella profonda conoscenza del territorio e di chi lo abitava, quanto nella capacità di riconoscere e sfruttarne i vantaggi. Come sottolinea lo storico Nicola Cacciatore nel suo recente libro Alleati e partigiani nella liberazione di Ravenna, Boldrini comprese che «le componenti fisiche non fossero le sole a determinare l’habitat dei partigiani, ma occorresse considerare il tessuto sociale della zona».
Nonostante l’assenza di difese naturali, la pianura romagnola era stata nei decenni «sezionata con fitti reticoli di fossi, siepi, argini e canali» che creavano ostacoli artificiali sfruttabili dai partigiani con straordinaria abilità tattica. Come evidenzia Cacciatore, se tedeschi e fascisti ebbero per mesi l’impressione di combattere contro una schiera di fantasmi, ciò fu dovuto all’abnegazione dei contadini romagnoli che ospitarono e protessero i combattenti. «Seguendo una metafora di Mao Zedong», conclude lo storico, «i combattenti divenivano i pesci e la popolazione l’acqua».
I corsari di Sua Maestà e i banditi romagnoli
Uno dei capitoli più affascinanti di questa avventura si lega a una collaborazione tanto efficace quanto inaspettata: quella tra i partigiani guidati da Boldrini, chiamati in modo sprezzante dai Tedeschi “banditen” (banditi), e i soldati di un’unità irregolare dell’esercito britannico guidata dal leggendario, Vladimir Peniakoff, meglio conosciuto come “Popski”. Ingegnere di formazione, aveva negli anni coltivato la sua passione per l’esplorazione, il deserto e l’archeologia. Con lo scoppio della guerra in Nord Africa, queste competenze lo resero prezioso per le forze armate britanniche, che gli affidarono la creazione di un’unità speciale destinata a diventare celebre per le sue audaci incursioni dietro le linee nemiche, in nord-Africa e Italia. La Popski’s Private Army (PPA), pur ufficialmente incorporata nell’Ottava Armata britannica di stanza in Romagna, godeva di straordinaria autonomia operativa e si muoveva agilmente su jeep armate di mitragliatrici. Questi «corsari su jeep» – come Popski li definì all’interno della sua autobiografia – portavano come emblema l’astrolabio, antico strumento di navigazione che simboleggiava le tecniche di orientamento apprese durante i suoi anni trascorsi nel deserto.
Nell’autunno del 1944, la PPA attraversò le linee nemiche nella zona di Ravenna e, da quel momento, fino alla liberazione della città combatté fianco a fianco con le formazioni partigiane. Fu un incontro affascinante tra mondi distanti – quello degli avventurieri cosmopoliti di Popski e dei contadini romagnoli – uniti però da ideali molto simili e dalla lotta a un nemico comune e ciò che rappresentava. Un incontro magistralmente descritto dallo stesso Peniakoff all’interno delle sue memorie e del libro Corsari in Jeep (Danilo Montanari editore): «Portavano, su abiti borghesi, i fazzoletti rossi della Brigata Garibaldi ed erano forniti di armi tedesche; avevano un’aria selvaggia, ma parlavano a bassa voce ed i loro modi erano sottomessi, perché erano stanchi. Avevano combattuto continuamente contro i Tedeschi durante gli ultimi quattro mesi. Il comandante del distaccamento era un muratore, un pezzo d’uomo di trentatré anni, e si chiamava Ateo (Ateo Minghelli). Non era un nome di battaglia; lo portava di pieno diritto essendo stato chiamato così, alla nascita, in omaggio all’anticlericalismo del padre. Vi è in Romagna un’antica tradizione di indipendenza di pensiero, e di intolleranza popolare nei confronti della tirannia. I Romagnoli si rivoltarono prima contro il potere secolare della Chiesa; dopo l’unificazione dell’Italia, disprezzando i poteri governativi e non potendo chiedere aiuti a chicchessia, operai e contadini si erano organizzati in cooperative che nemmeno i fascisti erano riusciti a sciogliere. I socialisti trovarono qui aderenti in maggior numero che non in qualsiasi altra parte d’Italia. Quando, dopo la prima guerra mondiale, si formò il partito comunista, esso si sviluppò rapidamente in Romagna e oppose una costante resistenza sotterranea al fascismo. Dopo l’armistizio italiano (8 settembre, 1943) i Romagnoli, già avvezzi ad amministrare le loro cooperative ed aiutati dalla robusta organizzazione e dalla forte disciplina del partito comunista, disposero presto della più efficiente formazione partigiana d’Italia».
La straordinaria capacità di Popski di riconoscere il valore e le competenze dei partigiani ravennati, competenze che vennero messe a frutto nella liberazione di Ravenna, contribuì a ridurre in modo significativo le diffidenze nei confronti di brigate partigiane composte principalmente da comunisti, e favorì un modello di collaborazione che si sarebbe rivelato determinante nella fase finale del conflitto e nella liberazione del nord-Italia.
La figura di Popski assunse inoltre un ruolo centrale nel salvataggio della Basilica di Sant’Apollinare in Classe, patrimonio Unesco. Memore dei preziosi mosaici custoditi al suo interno, fece annullare personalmente il bombardamento alleato che era stato pianificato a causa della presenza di forze tedesche che ne utilizzavano il campanile come punto di osservazione strategico. La basilica venne poi successivamente liberata grazie a un’incursione.
Un’alleanza senza precedenti
Se l’incontro tra la Popski’s Private Army e i partigiani ravennati rappresentò un primo, significativo esempio di collaborazione tra forze irregolari, fu l’integrazione formale della 28ª Brigata Garibaldi nell’Ottava Armata britannica, avvenuta in seguito alla liberazione di Ravenna, a creare un modello senza precedenti di cooperazione nella storia della Seconda Guerra Mondiale.
Il percorso verso questa collaborazione non fu ovviamente privo di ostacoli. Negli ambienti politici e militari britannici persisteva infatti una profonda diffidenza verso le formazioni partigiane, specialmente quelle guidate dai comunisti. Il pragmatismo di Arrigo Boldrini si rivelò però determinante nell’abbattere queste barriere. Da un lato, l’efficacia e la disciplina dimostrate dai combattenti ravennati parlarono da sé; dall’altro, Boldrini impose rigide regole che proibivano l’esibizione di simboli di partito o l’esecuzione di inni politici durante le operazioni, assicurando che il movimento partigiano fosse – e venisse inoltre percepito – come un’autentica forza trasversale di liberazione nazionale.
La 28esima Brigata Garibaldi avrebbe poi combattuto fianco a fianco dell’VIII Armata Britannica fino alla fine del conflitto, rafforzando una collaborazione tra mondi fino a quel momento sconosciuti. La stessa VIII Armata era un mosaico che rifletteva la diversità etnica e culturale dell’Impero. Sotto un comando unificato operavano infatti soldati provenienti da cinque continenti: britannici, canadesi, australiani, neozelandesi, sudafricani, indiani e combattenti appartenenti alla Brigata Ebraica. La battaglia decisiva di questa campagna avrebbe infine avuto luogo lungo il fiume Senio, nell’aprile 1945. Precedute da uno dei bombardamenti più significativi del fronte europeo, dopo mesi di stallo le truppe alleate e quelle partigiane avrebbero sfondato la linea del fronte, liberando la Romagna e avanzando verso il Veneto.
Un’eredità per l’oggi
Se la memoria storica appare oggi sempre più fragile – anche in ragione del rapido mutamento negli equilibri internazionali e dell’erosione di quei principi etici che, seppur spesso disattesi, avevamo considerato condivisi – preservare il retaggio della Resistenza non può che trascendere la semplice commemorazione e diventare fonte vitale d’ispirazione. Gli sguardi ritratti di partigiani e staffette – testimoni diretti di quella straordinaria stagione di lotta – si intrecciano qui con quelli dei pronipoti, naturali custodi di quei valori, creando così un ponte ideale tra il passato e presente. Sguardi come quello di Elisa Andraghetti, oggi consigliera comunale a Lugo e pronipote di Vincenzo Giardini, partigiano e primo sindaco della città nel dopoguerra. O quello di Camilla Mancini, attiva nell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e pronipote di Amos Calderoni, insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare, morto eroicamente in battaglia per proteggere la ritirata dei suoi compagni.
La storia della Resistenza ravennate si compone di queste narrazioni – delle storie di chi seppe compiere scelte straordinarie al fine di veder realizzata un’idea diversa di società, di chi fu in grado di anteporre al proprio interesse e quieto vivere ciò che sapeva essere giusto. Così come Boldrini sfidò le convenzioni militari trasformando un apparente svantaggio in un punto di forza strategico, così queste storie ci insegnano che l’ingegno, l’unità e la determinazione possono sovvertire qualsiasi logica di oppressione.
In apertura: Minny (Viera) Geminiani, nata ad Alfonsine (RA) nel 1926, contadina e mondina. Come staffetta partigiana, dopo l’8 settembre 1943, a rischio della propria vita, trasportò ordini, armi e medicinali ai partigiani nella zona tra Voltana e Alfonsine. Aiutò inoltre molti a evitare la leva imposta dal regime (foto dal reportage di Marco Scardovi)
L’autore: Marco Scardovi è operatore umanitario, autore di reportage fotografici e articoli di approfondimento. Lavora per un’organizzazione non governativa internazionale ed è stato assessore alla Cultura e alle politiche giovanili del Comune di Lugo di Romagna, dove attualmente presieda la commissione consiliare Politiche sociali, disabilità, pubblica istruzione, cultura, turismo e pari opportunità