La Casa della Memoria e della Storia di Roma ospita fino al 18 novembre una mostra sulle donne internate in manicomio durante il Fascismo, ricostruendo i volti dei "fiori del male" a lungo dimenticati

Vittime della guerra, isteriche, madri contro natura, emarginate, disubbidienti e fuori dalle convenzioni sociali e morali: sono le donne che il Ventennio fascista ha recluso nei manicomi di tutta Italia secondo un piano eugenetico che le voleva soltanto spose e madri.

Sono i volti dei “fiori del male”, le “deboli piante intisichite”, le storie delle donne raccontate nella mostra allestita alla Casa della Memoria e della Storia di Roma, recuperate dagli archivi dell’ex manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, uno dei più grandi ospedali psichiatrici dell’Italia centro-meridionale.
La mostra, a cura di Annacarla Valeriano e Costantino Di Sante, vuole colmare un vuoto storico e cronico che privilegia alcune narrazioni a scapito di altre e trae ispirazione dalle riflessioni della scrittrice Christa Wolf in “Cassandra”: «le tavolette degli scribi tramandano la contabilità del palazzo: grano, anfore, armi, prigionieri. Per il dolore, l’infelicità, l’amore non ci sono segni. E questo mi sembra di rara infelicità».

Le donne del manicomio di Sant’Antonio Abate diventano, così, i testimoni involontari dell’esclusione, dell’emarginazione sociale e di genere messo in atto dal Regime, che ha stigmatizzato e punito quelle donne che si sono sottratte al ruolo di “angeli del focolare”.

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Durante il Ventennio, spiega la mostra, gli ospedali psichiatrici hanno ricoperto un ruolo di primo piano nel contenimento e nella repressione delle “cellule impazzite” non conformi alla morale comune e i medici sono diventati “ le sentinelle avanzate della civiltà e dell’igiene”, tanto che tra il 1927 e il 1941 i pazienti psichiatrici sono quasi raddoppiati in tutta Italia.
I presupposti dell’internamento di alcune categorie femminili facevano capo alle rappresentazioni culturali della devianza risalenti al Positivismo ottocentesco, sfociando nelle teorie eugenetiche novecentesche, proprio mentre la psichiatria cercava di affermarsi come branca di sapere autonomo nell’ambito delle discipline mediche.

La devianza morale femminile corrispondeva all’inferiorità fisica rispetto all’uomo, per cui alla donna fragile e subalterna spettava solo il regno sicuro della casa: «è un povera creatura, misteriosa, – scriveva Augusto Alfani ne “Il carattere degli italiani” nel 1878 – per la quale è legge senza eccezione il dolore: è malata una volta al mese e ancor più malata per una gran parte del tempo della sua fecondità. La donna ha figli da educare, casa da sorvegliare, biancheria da cucire».
La bonifica della femminilità deviante e disubbidiente cominciava durante l’infanzia, nei riguardi di tutte quelle bambine e giovani donne che sembravano imperfette e inadatte ad accogliere docilmente il ruolo materno e riproduttivo. «È necessario ridurre il più possibile quella schiera di ipoevolute sessuali che hanno la pubertà tempestosa, che sono di minimo o nessun rendimento, che avranno, quando l’hanno, una fecondità tarda e difficile, con maternità tormentate e parti patologici: – scriveva Nicola Pende nel 1937 – quelle donne che si trascinano da medico a medico, donne che vivono male e fanno vivere male chi convive con esse».

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La maggior parte delle donne ricoverate al manicomio di Sant’Antonio Abate fa capo alla categoria di “massaia rurale”: contadine, spesso costrette in spazi casalinghi angusti, in situazioni di promiscuità, traumatizzate dalla guerra, dalla perdita dei cari e dalle violenze sessuali subite.
L’affermazione del disagio femminile fuori dai recinti prestabiliti veniva considerata dal Fascismo “una ridicola scimmiotteria dell’anima maschile, una parodia della libertà”, “una cattiveria che merita soltanto qualche piccola correzione”, un capriccio femminile, non un vero e proprio disagio esistenziale da legittimare.
Coloro che erano incapaci di essere “madri assolute”, coloro che volevano sottrarsi alla funzione riproduttiva ed essere libere dai ruoli sociali imposti – come le donne che popolano il mito greco, da Medea, Cassandra, Elettra, a Clitemnestra – erano considerate “contro natura” e “donne cagne” come le loro madrine mitologiche.

IDA DALSER E BENITO ALBINO (Agenzia: ANSA) (NomeArchivio: 260809uz.JPG)
Ida Dalser e suo figlio Benito Albino Mussolini

Destino che non fu risparmiato nemmeno a Ida Dalser, che ebbe un figlio da Benito Mussolini nel 1915 e che morì nel manicomio psichiatrico San Clemente di Venezia nel 1937. Di Ida si sa che per tutta la vita ha cercato di essere riconosciuta come moglie da parte di Mussolini, il quale l’ha sempre ripudiata e allontanata, fino a impedirle di abbandonare la città di Trento, da cui più volte è evasa per raggiungerlo a Roma, a Palazzo Venezia.
La mostra “I fiori del male. Donne in manicomio nel Regime Fascista” – che è gratuita ed è prevista fino al 18 novembre – cerca di riassumere in un lavoro d’archivio e di recupero le memorie personali delle pazienti e le memorie istituzionali dell’epoca in modo lucido e storiografico, offrendo interessanti strumenti di analisi anche alle questioni di genere contemporanee.