Solo qualche settimana fa lo davano per spacciato e Time gli dedicava una copertina titolando “Total meltdown”. Questa notte le cose però sono andate diversamente e quasi 60 milioni di americani hanno scelto di eleggere un miliardario con idee razziste e autoritarie, senza nessuna esperienza o capacità politica di fare il presidente, a detta anche di molti repubblicani. Le implicazioni di quest’elezione, storica ma non nel senso in cui ci attendevamo, sono difficili da prevedere su larga scala. Un fatto però è certo ed è parte di un trend globale: i candidati percepiti come membri dell’establishment perdono. E cosa importa se, soffermandosi due minuti in più a riflettere, qualsiasi elettore potrebbe capire che anche Donald il milionario è un membro dell’establishment, l’elettore medio lo vede gridare arrabbiato e lo sente simile a lui. L’uomo forte di cui si ha bisogno per essere traghettati fuori dalla crisi. L’uomo appunto, non certo la donna. E Trump è talmente forte da aver elogiato dittatori come Saddam Hussein per le loro politiche autoritarie («He was a bad guy, really bad guy. But you know what he did well? He killed terrorists. He did that so good»), appoggiato leader che troppo democratici non sono come Putin, si è dichiarato favorevole alla tortura (waterboarding incluso) contro i nemici dell’America con la giustificazione che «dobbiamo sconfiggere i selvaggi», promesso la costruzione di muri e di politiche inumane contro gli immigrati. Ha anche proposto una riforma sanitaria che tagli i costi di quella realizzata da Obama, troppo costosa perché allarga il sussidio sanitario a troppe persone, e gli Stati Uniti, si sa, non sono diventati certo un grande Paese grazie alla sanità pubblica, quindi meglio tagliare tutto e make America great again. Già che ci siamo, ha anche dichiarato di non essere d’accordo con le politiche messe in atto contro il cambiamento climatico, meglio: secondo il nuovo presidente si tratterebbe di un complotto messo della Cina per rendere le industrie manifatturiere americane meno competitive. Un capolavoro di populismo insomma, manna dal cielo per una middle class ignorante e arrabbiata che a quanto pare costituisce la maggioranza di quella che è (era?) la più grande democrazia occidentale. Qualche americano si sta già organizzando per l’espatrio e non è una battuta, visto che questa mattina il sito del Canada dove è possibile richiedere i visti è bloccato per le troppe visite.

Solo qualche settimana fa lo davano per spacciato e Time gli dedicava una copertina titolando “Total meltdown”. Questa notte le cose però sono andate diversamente e quasi 60 milioni di americani hanno scelto di eleggere un miliardario con idee razziste e autoritarie, senza nessuna esperienza o capacità politica di fare il presidente, a detta anche di molti repubblicani.

Le implicazioni di quest’elezione, storica ma non nel senso in cui ci attendevamo, sono difficili da prevedere su larga scala. Un fatto però è certo ed è parte di un trend globale: i candidati percepiti come membri dell’establishment perdono. E cosa importa se, soffermandosi due minuti in più a riflettere, qualsiasi elettore potrebbe capire che anche Donald il milionario è un membro dell’establishment, l’elettore medio lo vede gridare arrabbiato e lo sente simile a lui. L’uomo forte di cui si ha bisogno per essere traghettati fuori dalla crisi. L’uomo appunto, non certo la donna.

E Trump è talmente forte da aver elogiato dittatori come Saddam Hussein per le loro politiche autoritarie («He was a bad guy, really bad guy. But you know what he did well? He killed terrorists. He did that so good»), appoggiato leader che troppo democratici non sono come Putin, si è dichiarato favorevole alla tortura (waterboarding incluso) contro i nemici dell’America con la giustificazione che «dobbiamo sconfiggere i selvaggi», promesso la costruzione di muri e di politiche inumane contro gli immigrati.

Ha anche proposto una riforma sanitaria che tagli i costi di quella realizzata da Obama, troppo costosa perché allarga il sussidio sanitario a troppe persone, e gli Stati Uniti, si sa, non sono diventati certo un grande Paese grazie alla sanità pubblica, quindi meglio tagliare tutto e make America great again. Già che ci siamo, ha anche dichiarato di non essere d’accordo con le politiche messe in atto contro il cambiamento climatico, meglio: secondo il nuovo presidente si tratterebbe di un complotto messo della Cina per rendere le industrie manifatturiere americane meno competitive.

Un capolavoro di populismo insomma, manna dal cielo per una middle class ignorante e arrabbiata che a quanto pare costituisce la maggioranza di quella che è (era?) la più grande democrazia occidentale. Qualche americano si sta già organizzando per l’espatrio e non è una battuta, visto che questa mattina il sito del Canada dove è possibile richiedere i visti è bloccato per le troppe visite.