Mesi fa il regista americano pubblicava sul suo sito un articolo dal titolo: 5 ragioni per cui Trump vincerà. Abbiamo confrontato le sue tesi con i dati elettorali. Combaciano perfettamente

New York – Cosa pensano e cosa vogliono gli elettori di Trump? Ci sono quelli di destra, certo. I razzisti del Sud, pure. I ricchi che non vogliono pagare le tasse. Anche loro. Ma tutti e ciascuno di costoro votavano repubblicano già nel 2008 e nel 2012. Su Left abbiamo provato a parlare spesso dei blue collars, i lavoratori bianchi, che in realtà sono una categoria più grande: i bianchi senza istruzione superiore. Pur contando sul fatto che gli altri, gli elettori delle minoranze, giovani e metropolitani avrebbero comunque raggiunto la maggioranza e dato la vittoria a Hillary Clinton, appariva chiaro che lo slancio della campagna del nuovo presidente degli Stati Uniti veniva da loro. Sono quelli che Hillary ha chiamato basket of deplorable – massa di miserabili è la traduzione migliore. Più rozzi, più stanchi, più appassionati di auto che di yoga, restano il primo gruppo sociale d’America. In calo, destinati ad estinguersi, certo, ma capaci di contribuire in maniera sostanziale alla vittoria – specie in un sistema presidenziale nel quale chi prende più voti non è detto che vinca.

Il voto di martedì è stata una loro vittoria. Gli Stati che Clinton ha perso a sorpresa sono tutti quelli con una certa tradizione democratica e sindacale, con una paesaggio caratteirzzato dai barn, i fienili rossi delle fattorie e dalle ciminiere spente e dove, fuori dalle città, il paesaggio economico e sociale è difficile e accidentato. Di quella crisi e quella sofferenza ci hanno detto gli esperti con i quali abbiamo parlato, ci hanno raccontato le persone della middle class che non partecipano alla frenesia della Borsa o alle gioie dell’economia digitale che impazza sulle coste Est e Ovest. In tutta quell’area del Paese che un tempo era florida, volenterosa e guardava con fiducia e sobrietà al futuro – la retorica è americaneggiante apposta – la fiducia è scomparsa e rabbia o inquietudine sono la normalità. Iowa, Indiana, Wisconsin, Ohio, Pennsylvania, Michigan hanno voltato le spalle ai democratici o lo avevano fatto già nel 2012. Quelli sono gli Stati dove le fabbriche e le miniere hanno chiuso.

Chi in quei posti ci vive lo sa: fuori dalle città le cose non vanno, c’è un boom di eroina e antidolorifici e i redditi stagnano. Lo sa bene, ad esempio, Michael Moore, che di quella America è un portavoce. La sua Flint (andate a rivedere il primo documentario, Roger and Me), in Michigan è uno specchio perfetto di quella realtà. Mesi fa, sul suo sito, Moore aveva scritto un articolo dal titolo: Perché Trump vincerà. Ne riprendiamo alcune parti e confrontiamo le sue affermazioni con i dati della notte elettorale.
«Benvenuti alla nostra Brexit in stile Rust Belt (la cintura della ruggine, come si chiama questa zona). Credo che Trump si concentrerà sui quattro stati blu nella Rustbelt e dei Grandi Laghi – Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin. Quattro stati tradizionalmente democratici – ma ciascuno di essi ha eletto un governatore repubblicano dal 2010 (solo in Pennsylvania non è così). Alle primarie del Michigan hanno votato più repubblicani (1,32 milioni) che democratici (1,19 milioni)».
Come è possibile che a tratti nei sondaggi Trump sopravanzi Hillary si chiedeva Moore? «Beh forse è perché ha detto (giustamente) che il sostegno di Clinton al NAFTA ha contribuito a distruggere gli stati industriali del Midwest…Trump, all’ombra di una fabbrica Ford, ha minacciato la società che vuole chiudere una fabbrica e portarla in Messico di imporre una tariffa del 35% su ogni auto importata da quel Paese». Il commercio internazionale, cresciuto nell’era Clinton, è una delle chiavi, dunque.
«Da Green Bay a Pittsburgh, questa, amici miei, è la nostra Inghilterra centrale (quella che ha votato la Brexit) – in crisi, depressa, che non ce la fa, le ciminiere sparsi attraverso la campagna con la carcassa di quello che usiamo chiamare la classe media. Arrabbiati, amareggiati, con o senza lavoro, traditi dall’economia reaganiana (la trickle down economics) e abbandonati dai democratici che raccontano loro le cose giuste ma poi sono pronti a strofinarsi con un lobbista di Goldman Sachs che alla fine dell’incontro gli staccherà un assegno pesante».

Non ha tutti i torti Moore: le persone che hanno votato Trump e non Clinton sono soprattutto queste. Il repubblicano ha preso il 52% dei voti nelle contee dove il reddito medio è tra i 20 e i 30mila dollari (con un reddito così in molte città si muore letteralmente di fame), ha vinto nelle contee dove la gente è meno istruita con il 70% dei voti, ha vinto nelle zone rurali spopolate, nelle contee sotto i 20 mila abitanti, dove Clinton è in media sotto al 30%. Clinton vince tra i più poveri a livello nazionale solo perché a votarla ci sono le minoranze. Con un problema: l’entusiasmo generato da Trump tra certe fasce di popolazione non è inversamente proporzionale a quello generato da Clinton. La partecipazione al voto – non ci sono ancora numeri definitivi, è stata bassa e questo significa che neri e latinos non sono corsi in massa alle urne. E nemmeno i giovani: Hillary ha vinto nettamente tra gli under 44, ma evidentemente le persone con più di 45 anni sono andate a votare molto di più. E ormai le elezioni sono un esercizio nel quale occorre portare la tua gente a votare. Quelli di Trump votavano per, quelli di Hillary contro, e tutto sommato la speranza – per quanto mal riposta –  è un carburante migliore della paura.

Michael Moore parlava anche di maschilismo, facendo dire all’elettore maschio bianco tipo: «Il mondo maschilista, 240 anni di dominico sta volgendo al termine. Una donna è in procinto di prendere la guida! Come è potuto succedere? C’erano segnali, ma li abbiamo ignorati. Nixon, il traditore, ha imposto la regola che le ragazze a scuola posono fare tutti gli sport. Poi le abbiamo lasciate pilotare i jet commerciali. Prima abbiamo visto Beyoncé prendere d’assalto il campo al Super Bowl di quest’anno (il nostro gioco!) con un esercito di donne di colore, pugni alzati, a dichiarare che il nostro dominio è finito»

Un senso di potere che se na va genera mostri. E infatti Trump vince tra i maschi sposati, i due quasi pareggiano, con Clinton in lieve vantaggio, tra le donne sposate, Hillary vince tra gli uomini non sposati di poco e tra le donne non sposate di molto. Questo vuol dire che: le donne non si sono sentite offese oltre una certa misura da Trump, non sono corse in numeri eccezionali per fermarlo. E anche che la famiglia standard, sebbene in ritirata, è ancora la maggioranza del Paese.

Nel suo articolo, il regista di Angry White Men parlava anche di politica: «Ammettiamolo: Il nostro più grande problema qui non è Trump – è Hillary. Lei è estremamente impopolare – quasi il 70% degli elettori la ritiene inaffidabile e disonesta. Lei rappresenta il vecchio modo di fare politica». Moore spiega poi come gli elettori di sinistra, quelli di Bernie Sanders, pur votando per la candidata democratica, non si daranno da fare. La mancanza di entusiasmo è una delle chiavi di queste elezioni.

Poi c’è la paura dell’uomo bianco, che non sempre è razzismo, ma distanza: Clinton ha perso 62% a 33% in tutte le contee dove la popolazione è bianca all’85%. Gli Usa sono un Paese dove un cittadino su sette è nato all’estero. Bene, Trump ha stravinto in quelle contee dove il 97% almeno dei cittadini è nato negli Stati Uniti. C’è un’America nativista, inquieta e che per otto anni ha masticato amaro guardando Barack e Michelle Obama che si è presa la sua rivincita.

Ne parliamo anche su Left in edicola dal 12 novembre

 

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