Allora un buon esercizio per capire è vedere chi festeggia e chi rischia la sconfitta. Festeggiano le lobby del fossile, delle armi e forse, negli States, i costruttori, insieme a Putin, Orban, Maduro, Al Sisi, Zerman, citati qualche giorno fa da un quotidiano nazionale, e ancora Theresa May, Erdogan, Le Pen, Salvini (che nella sua logica contraddittoria ha dichiarato trionfante: «È la vittoria del popolo contro i poteri forti»). Chi potrebbe essere sconfitto? Sicuramente le politiche del welfare, e poi, ai primi posti, metterei l’Europa, la lotta ai cambiamenti climatici, i migranti e l’Onu. Quattro aspetti della stessa sfida: sbloccare il presente, superare l’impasse in cui l’Europa è rimasta irretita, rilanciare una visione innovativa che produca lavoro, giustizia sociale, riduzione delle disuguaglianze tra ceti e tra Paesi, per ricostruire un comune sentire tra i popoli dell’Europa e del globo. Un’utopia? Non credo, perché sappiamo le opportunità che offre l’economia green e quali sono i passi da intraprendere e che vanno nella direzione dell’interesse generale, contro i privilegi di piccole minoranze che sono ai vertici del potere e della ricchezza. Perché sappiamo bene che l’orizzonte ambientale, in questo quadro, gioca un ruolo strategico insieme alla necessità di rilanciare la partecipazione democratica dei tanti, troppi, che oggi rifiutano la politica, e che, per disperazione o ignoranza, si fanno catturare da narrazioni avveniristiche, che in realtà guardano al passato.Trump's 100-day action plan for energy #climate #cop22 "cancel Paris Climate Agreement" and stop payments "to U.N. global warming programs." pic.twitter.com/p0BvVXzyrf
— Graham Readfearn (@readfearn) 9 novembre 2016
Il trionfo di Trump rende evidente anche negli Usa una cosa che qui in Europa sappiamo da qualche anno. Quando tra la gente comune si accendono le polveri della paura e della frustrazione, la sinistra storica non ha uditorio, perché quello che dice non è credibile. Vale per le socialdemocrazie europee come per i democratici statunitensi.
Mi spiego. Di fronte all’attuale globalizzazione ci sono due generi di risposte: una è la paura di perdere quel che si ha, l’altra è il desiderio e la speranza che ci sia un cambiamento buono per tutti. In mezzo c’è l’establishment.
La sinistra sta qui, immobilizzata. Incapace di liberarsi del sostegno dato al liberismo oltranzista globale, prigioniera della fede ideologica secondo cui l’aumento del commercio e il superamento dei vincoli per la finanza avrebbero portato sviluppo e benessere. Una deriva per cui in Europa le socialdemocrazie sono rimaste irretite nelle politiche della destra sull’austerity, e negli Usa non hanno potuto rivendicare nessuna credibilità contro le demagogiche proposte di Trump.
Negli Stati Uniti Donald Trump ha vinto perché ha “narrato” una risposta alla crisi del ceto medio (al di là della sua realizzabilità), e la Clinton ha perso perché non era credibile quando parlava di cambiamento. Lo stesso Obama ha svolto un’azione troppo timida (si dirà che era condizionato da un Parlamento contrario) sul piano sociale e contro le lobby finanziarie, nonostante i passi avanti sulle politiche ambientali e climatiche. Obama aveva la narrazione, ma non le politiche, come ci rappresenta bene il suo discorso in Africa nel 2009.
La Clinton era il vecchio che resiste e, anche se quel vecchio parla di diritti civili, di democrazia, di giustizia sociale, nessuno le ha creduto.
Ma Trump è il nuovo? Tanto per cominciare propone di cambiare tutto tornando al passato, smontando le politiche ambientali ed energetiche di Obama. È un finto nuovo.
Cosa ci dobbiamo aspettare? Difficile dirlo. A Marrakesh, dove è in corso la Cop22 sul clima, i più ottimisti dicono “staremo a vedere”. «Nulla sarà come prima», ha promesso lui in campagna elettorale. Ma è difficile credere che un miliardario al potere vada contro i poteri forti e il capitale finanziario. Piuttosto sembra inseguire le politiche economiche del Novecento. A livello internazionale, poi, la riedizione di un bipolarismo Usa-Russia forse apre nuove soluzioni alla polveriera del Medio Oriente ma potrebbe innescare altri conflitti, magari commerciali, con la Cina. Mentre è certo che in Europa finirà per legittimare le destre populiste nelle imminenti tornate elettorali.
Trump’s 100-day action plan for energy #climate #cop22 “cancel Paris Climate Agreement” and stop payments “to U.N. global warming programs.” pic.twitter.com/p0BvVXzyrf
— Graham Readfearn (@readfearn) 9 novembre 2016
Allora un buon esercizio per capire è vedere chi festeggia e chi rischia la sconfitta. Festeggiano le lobby del fossile, delle armi e forse, negli States, i costruttori, insieme a Putin, Orban, Maduro, Al Sisi, Zerman, citati qualche giorno fa da un quotidiano nazionale, e ancora Theresa May, Erdogan, Le Pen, Salvini (che nella sua logica contraddittoria ha dichiarato trionfante: «È la vittoria del popolo contro i poteri forti»).
Chi potrebbe essere sconfitto? Sicuramente le politiche del welfare, e poi, ai primi posti, metterei l’Europa, la lotta ai cambiamenti climatici, i migranti e l’Onu. Quattro aspetti della stessa sfida: sbloccare il presente, superare l’impasse in cui l’Europa è rimasta irretita, rilanciare una visione innovativa che produca lavoro, giustizia sociale, riduzione delle disuguaglianze tra ceti e tra Paesi, per ricostruire un comune sentire tra i popoli dell’Europa e del globo. Un’utopia? Non credo, perché sappiamo le opportunità che offre l’economia green e quali sono i passi da intraprendere e che vanno nella direzione dell’interesse generale, contro i privilegi di piccole minoranze che sono ai vertici del potere e della ricchezza. Perché sappiamo bene che l’orizzonte ambientale, in questo quadro, gioca un ruolo strategico insieme alla necessità di rilanciare la partecipazione democratica dei tanti, troppi, che oggi rifiutano la politica, e che, per disperazione o ignoranza, si fanno catturare da narrazioni avveniristiche, che in realtà guardano al passato.