Da qualche giorno, negli Stati Uniti si parla anche molto del “registro per i musulmani” proposto in campagna elettorale da Donald Trump – ci sono i video in cui ne parla. Lo staff del presidente eletto ha smentito di volerne istituire uno dopo essere stato sommerso da una pioggia di critiche durissime che ricordavano come il registro degli appartenenti a una religione lo abbiano istituito i nazisti.
Da dove vengono questi toni estremisti di Trump, che certo hanno contribuito a fargli vincere le elezioni e le primarie repubblicane sdoganando idee e modi di rappresentare la realtà della peggiore destra americana? Probabilmente da Steve Bannon, nominato stratega della Casa Bianca e figura che ha spiegato come il sito di notizie che dirigeva (Breibart News), fosse la piattaforma ideale per alt-right (alternative right, la definizione è di Richard Bertrand Spencer), movimento di giovani, spesso universitari, che nasce nel 2010 in contrapposizione alla destra tradizionale repubblicana. Durante una serie di interviste alla sua trasmissione radio, come ha notato il Washington Post analizzandole, Bannon ha in qualche modo fatto dire, plasmato, il messaggio del neo presidente su alcune questioni.
L’ideologia della alt-right non esiste e non è omogenea: ci sono spunti della Nuova destra francese, libertari alla Ron Paul che professano isolazionismo, fine dell’Onu, ma anche marijuana libera, “neo-reazionari” che professano la riduzione del governo federale e il ritorno ai valori tradizionali, “archeofuturisti”, che chiedono valori tradizionali ma non sono contrari ai computer, e infine ci sono i favorevoli alla biodiversità umana, ovvero razzisti scientifici che sostengono che siamo tutti diversi e quindi non possiamo convivere. Per non parlare dei cattolici che detestano il Concilio Vaticano Secondo.
Il gruppo è una novità per varie ragioni: non si tratta di vecchi conservatori e neppure di gruppi estremisti e rozzi alla Ku Klux Klan, ma di una specie di élite intellettuale della destra estrema. Che durante la campagna elettorale ha ottenuto una enorme visibilità mediatica ed ha animato i social network con meme e tweet bombing. Le esagerazioni, spesso, tipiche da social network, sostengono alcuni di loro, servono a difendere la libertà di espressione contro il politically correct. Siamo giovani e simpatici provocatori, è l’idea, non vecchia feccia razzista. Ciò detto, le idee sono in parte quelle della destra antisemita, razzista, suprematista bianca, anti immigrazione e ferocemente anti-egualitaria. E troveranno posto nell’amministrazione Trump, se il buongiorno si vede dalle prime nomine fatte dal futuro presidente. Bannon, quelli di alt-right li definisce di semplici nazionalisti, rimandano un po’ al frontismo Lepenista francese (quello di Marine, non quello di Jean Marie).
Torniamo alla figura di Steve Bannon, sulla cui nomina si è scatenato un putiferio e che ha condizionato molto le idee di Trump e il suo modo di proporle. Ricostruire la sua vicenda è interessante per capire chi sarà l’uomo incaricato di generare consenso alla presidenza Trump. Da giorni lo vediamo descritto come una specie di Cavaliere oscuro. Una descrizione per certi aspetti calzante, Bannon ha convinzioni politiche terrificanti, ma anche fuorviante: l’ex militare, banchiere e produttore di cinema e Tv non è una specie di Rasputin irrazionale, ma uno con un piano. Che evidentemente ha funzionato.
Se ne è scritto e parlato molto in questi giorni, settimane, mesi. Perciò prendiamo alla lontana, raccontiamo la sua storia. Steve Bannon è stato militare, ha odiato Carter perché era su una nave nel Golfo durante la crisi iraniana, poi dopo un Master in business economics, ha trovato quasi per caso un posto di lavoro a Goldman Sachs: era a una specie di fiera del lavoro organizzata dalla banca, ha raccontato a Bloomberg, e si sentiva inadatto e impresentabile. Per questo se ne stava in disparte al bar, dove gli capitò di mettersi a chiacchierare con due manager destinati a crescere nel ranking della banca. E ad assumerlo. Dopo pochi anni a Goldman, durante i quali dice di aver sviluppato un certo disprezzo per la cultura delle corporation, Bannon fonda la sua impresa finanziaria assieme a un socio. Gestiranno patrimoni enormi, avranno clienti importanti (Samsung, Berlusconi, Westinghouse, il principe al Waleed, il saudita che ha messo soldi in decine di giganti di ogni tipo, PolyGram, tra gli altri) e faranno un mucchio di soldi.
Poi, ancora per caso, durante una trattativa in cui Westinghouse cercava di comprare un pezzo di Castle Rock Entertainment e Bannon e socio accettarono una quota delle royalties di uno show (Seinfeld) come pagamento. Lo stratega di Trump, insomma, è piuttosto ricco.
Nuovo salto: tornato da Singapore dove ha vissuto per lavoro, racconta ancora Bannon, ha trovato il Paese «fucked up», distrutto, dall’amministrazione Bush. E così, se si era avvicinato alla politica perché Carter era stato un disastro, con Bush rilancia e decide di muovere guerra all’establishment conservatore.
I primi passi li muove all’ombra di Andrew Breitbart, fondatore di Breitbartnews, sito che ha trasformato la faccia dei media conservatori, diventando la versione contemporanea delle talk radio – ovvero canali mediatici semi-mainstream con un pubblico molto grande, anche se non considerati in nessun modo autorevoli. Qui impara l’arte del titolo forzato, della caccia allo scoop anti liberal e della bufala giornalistica semi lavorata. Breitbart è la testa dietro ai successi di Huffington Post e Drudge Report e non è un bigotto tradizionale: tra le sue posizioni quella di sostegno ai gruppi repubblicani pro diritti LGBT (pochi, ma esistono). Ma comunque piuttosto di destra. Breitbartnews è anche il sito che fa esplodere il caso Weiner, il marito di Huma Abedin che mandava foto di se stesso alle ragazze – ci torniamo più giù.
Quando Breitbart muore, giovanissimo, Bannon prende le redini della baracca. E il sito diventa la nuova frontiera della comunicazione della destra. Un gruppo di giovani redattori, spirito camertesco e l’idea di lavorare con una missione. Spesso tutti attorno a un tavolo a casa di Bannon. Il logo informale di Breibart news è un tasso del miele africano, animale di inusitata ferocia,il motto: “Il tasso del miele se ne sbatte” (honey badger don’t give a shit).
Lo stratega che si dice disgustato di come sia diventata la finanza rispetto agli 80 in cui lui lavorava a Goldman Sachs e a cui i valori dell’America diversa e liberal di Obama fanno schifo. Nemico della globalizzazione e del cambiamento della società americana, che ha visto le minoranze conquistare spazio a scapito dei bianchi. Una delle sue convinzioni è che stia nascendo e crescendo «un movimento globale anti establishment e contro la classe politica», che la rivolta contro la globalizzazione che mette ai margini la classe media occidentale non sia solo americana, ma occidentale. Questo è uno degli aspetti che lo rende originale nel panorama della destra Usa (discorso che vale anche per alt-right). Bannon riconosce un legame con i partiti europei che stanno guidando l’avanzata nazional-populista – la presenza di Nigel Farage, leader del partito anti europeo britannico Ukip tra i primi a incontrare Trump dopo l’elezione, è un piccolo significativo segnale. In questo è lontano da quei gruppi tipo milizie o Ku Klux Klan, che più di reminiscenze e iconografia fascisteggiante, tendono a non avere. Bannon ritiene che l’Islam (tutto) sia un’ideologia politica come il nazismo, è un campione del populismo nazionalista e pensa che, sebbene ci siano elementi estremi e marginali tra le persone della coalizione messa assieme da alt-right, l’identità del movimento non sia razzista e antisemita (qui un lungo discorso teorico di Bannon fatto su invito di un istituto cattolico di quelli nemici di papa Francesco).
Il protagonista di queste righe è anche colui che ha detto alla sua ex moglie che non voleva che i suoi figli andassero a scuola con degli ebrei, che la contraccezione (la pillola) rende le donne brutte e fuori di zucca (crazy and unattractive), che per attaccare Bill Kristol, ideologo conservatore ma anti Trump, titola sul suo sito “L’ebreo rinnegato”.
Ma più che un ideologo, Bannon è uno stratega, disposto a mettere da parte cose a cui tiene per vincere. Ed ha lavorato benissimo nel demolire Clinton e nell’avvicinare un pubblico nuovo, che tendenzialmente non vota, a Trump.
Cosa ha fatto? Partiamo di nuovo da lontano. L’idea delle notizie di Breibart è quella per cui non occorra usare le bufale ma cercare di scovare e poi cucinare in maniera eccessiva, cose vere. Torniamo alla vicenda Weiner: come hanno fatto a beccarlo nel 2011? Avendo saputo che l’ex marito di Huma Abedin e allora rappresentante di New York in Congresso tendesse a fare sexting a casaccio, lo hanno seguito, “provocato” aspettando che sbagliasse a premere un tasto, come spesso capita a tutti, mandando un tweet pubblico, invece che un messaggio privato a una ragazza. Poi, con la foto in mano, l’hanno distrutto. Lo stesso Breitbart andò alla conferenza stampa di Weiner a massacrarlo per 15 minuti.
Allo stesso modo, Bannon ha fondato una specie di centro studi, il Goverment accountability institute, con il quale produce materiale ben organizzato e curato da passare ai giornali. La convinzione è che i media non abbiano più le risorse per mettere una persona mesi a lavorare su un’inchiesta e che, se le inchieste le fa qualcun altro e le passa ai reporter giusti, questi le useranno. Così nasce Clinton Cash, un libro di Peter Schweizer che narra degli intrecci tra la fondazione Clinton, Hillary come Segretario di Stato e una serie di donatori e capi di Stato stranieri non proprio immacolati. Il libro ha venduto centinaia di migliaia di copie, è diventato un film e una graphic novel. Ed è stato ripreso persino dal nemico New York Times (suscitando un vespaio). Notizie vere, ingigantite, confezionate nel modo giusto hanno insomma contribuito in maniera sostanziale a definire la candidata Clinton in maniera perfetta per il tipo di campagna che Trump si preparava a condurre contro la “corrotta” Hillary. A dire il vero la narrazione – in parte veritiera – ha funzionato in generale anche in rete: per mesi è sembrato che, in fondo, Trump fosse moralmente meglio di Clinton. Molto più della contro-narrazione sul Trump sessista o imprenditore disonesto. Da una parte c’era una strategia pensata, dall’altra una reazione.
Un altra mossa che oggi appare geniale? Invece di allargare l’elettorato di Trump, Bannon e il suo team hanno cercato di far calare quello di Clinton. «Abbiamo tre importanti operazioni di soppressione degli elettori in corso», ha detto durante la campagna elettorale un membro del team della campagna a Sasha Issenberg su Bloomberg-BusinessWeek «Sono rivolti a tre gruppi di cui Clinton ha bisogno per vincere: i liberali bianchi idealisti, donne giovani e afro-americani». Quando nei dibattiti Trump ha parlato in maniera insistente delle mail diffuse da Wikileaks, del sostegno ai trattati commerciali e alla Trans-Pacific Partnership parlava ai pro-Sanders. Le donne che accusano Bill Clinton di molestie con cui Trump ha fatto una conferenza stampa erano pensate per scoraggiare l’elettorato femminile mentre il ricordo della frase sui “super-predatori” dei ghetti neri per allontanare quell’elettorato dalle urne.
Nel complesso potrebbe aver funzionato: nelle contee degli Stati cruciali dove Clinton ha vinto con ampio margine lo ha fatto prendendo meno voti dei democratici in passato e la partecipazione al voto è calata, in quelle dove ha vinto Trump è cresciuta. Ma certo, a posteriori è facile dare del genio a chiunque: Trump ha vinto di poco in pochi Stati, perso il voto elettorale e non è detto che la sua vittoria non sia quasi un caso. Se si fossero spostati pochi voti in qualche contea staremmo ricordando una storia diversa. Quel che è certo è che oggi troviamo alla Casa Bianca un populista intriso di idee della destra peggiore che sta componendo la sua amministrazione in maniera pessima. E che il suo cervello politico è una figura dai tratti un po’ inquietanti che vuole far crescere la rivolta populista mondiale.
La rivolta mondiale populista è il tema di copertina di Left in edicola dal 19 novembre