Ci sono giorni in cui le gambe pesano come il piombo fuso. Fatico ad alzarmi, a trovare il passo. Figuriamoci quando tento di camminare al contrario, di risalire il fiume dei ricordi. Languono, i ricordi, tra le camicie azzurro cielo e i completi eleganti di lino, tra le montagne di panna montata e le paste della domenica. Io non lo so quando è cominciato. So solo che a un certo punto il sonno è venuto meno. So che la sera si è fatta di ghiaccio e la casa una trappola per topi.
Dal divano gli occhi fissi sullo schermo e le mani di mio padre che mi cercano sotto le coperte. Spostano i ciuffi di capelli castani dal collo e poi scivolano sulle spalle. Poi, ancora più giù dove il buio inghiotte tutto: le lacrime, il piacere, la paura, le urla soffocate. Quando imparano la prima regola del tacere, le bambine? Come sanno che hanno già perso in partenza? Io quando il film sta per finire non ho nemmeno il coraggio di alzare la testa. Mi pesa come se fosse di piombo. Se cadessi in mare ora, toccherei il fondo in un istante. Come un sasso, duro, pesante, inerte.
Quando mi alzo per andare in camera, vorrei sbagliare porta, uscire e non tornare mai più.
Invece un passo dopo l’altro guadagno il corridoio, supero la porta socchiusa di mia madre, la camera di mio fratello e finisco per sdraiarmi sul letto. Non ho il coraggio di chiudere gli occhi. Così leggo. Leggo fino a notte fonda tutte le storie del mondo che mi portano lontano dalla mia.
Dopo appena quattro ore di sonno, sono di nuovo in cucina, un attimo prima di andare a scuola, la tazza di latte fumante in mano e tutt’intorno le piastrelle blu mare. Noi l’estate passiamo tre mesi in spiaggia e quando siamo stufi delle alghe torniamo a fare il bagno in piscina. Sarà per questo che ci piace tanto il blu.
Noi siamo in quattro. Padre, madre e due figli. Un maschio e una femmina. Io sono la prediletta di mio padre e forse è per questo che una mattina appena svegliata l’ho trovato disteso sul letto accanto a me. Quando ho cercato di raccontarlo la prima volta alle amiche, molti anni dopo, mi sono sentita una valanga di terra in gola. Non usciva nemmeno un suono. Ho nascosto la testa nell’armadio e non la tiravo più fuori. Come se stessi cercando qualcosa.
Avevo il cuore stritolato dal dolore, ho pensato “adesso muoio”. Muoio di vergogna, muoio di pudore. Muoio. I primi attacchi di panico non hanno tardato a venire e quando si sono presentati mi sono sentita ancora più sola. Non bastava non nominare. Era sbagliato anche solo che stessi male. Io non solo non so quando tutto è cominciato, ma nemmeno com’è andata davvero. Mia madre ad esempio. Com’è stata mia madre? Ho sempre pensato che da una porta socchiusa se non tutto, almeno qualcosa si deve vedere. Ma non lo so, io questa risposta non la conosco.
So solo che il 70 per cento degli abusi sulle donne avviene all’interno delle mura domestiche. Dalla prima infanzia alla più tarda età. Che questo “Io” non sono io ma potrei esserlo. Che ognuna di noi lo è stata. In misura diversa ma per la stessa ragione. So solo che sappiamo indignarci per i casi eclatanti delle borgate ma che ancora non abbiamo il coraggio di aprire le porte in centro città.
So che gli strumenti giuridici sono ancora inadeguati, i fondi per i centri antiviolenza insufficienti e le politiche contro le discriminazioni di genere nelle scuole sempre tardive. So che i bambini sono come le edere e si attaccano a qualsiasi muro. Anche il più marcio se solo è un po’ baciato dal sole. So che una bambina abusata è una solitudine che non guarisce. E che un po’ sola, troppo sola, l’abbiamo lasciata anche noi. Da sola con l’uomo in completo di lino.
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