Il politologo Michele Prospero spiega a Left perché la sconfitta di Renzi era scontata («La sua arroganza ha prodotto una reazione di rigetto»). Perché il fatto che a festeggiare siano la sinistra, i 5 stelle ma anche la destra è una buona notizia. E perché, però, che Renzi si sgonfi, non è l'unica condizione per ricostruire qualcosa

Professore, è quello che si aspettava?

«Il successo del No era scontato ed è stato reso possibile, paradossalmente, dallo stesso presidente del Consiglio. Quindi era prevedibile, sì. Quello che non era prevedibile, almeno in questi termini, è invece l’affluenza straordinaria ai seggi»

Ha votato il 65,5 per cento, un dato quasi da elezioni politiche. Come se lo spiega?

«La partecipazione al voto è stato un riflesso popolare, contrario all’ordine arrivato da palazzo Chigi che, appellandosi persino a una fantomatica maggioranza silenziosa, ha ecceduto in populismo, un populismo dall’alto di un potere che ha tentato di presentarsi come contropotere. Fallendo. Ha invece innescato una reazione popolare vera, di chi ha colto un atteggiamento costituzionalmente sciagurato. Un atteggiamento e delle scelte che sarebbero dovute esser fermate prima, almeno da chi dovrebbe esercitare una qualche funzione di contropotere: per questo il voto è una batosta clamorosa per il governo, ma anche per gli ex presidenti della Repubblica, gli ex presidenti del Consiglio, le figure istituzionali che hanno avallato, seppur con riserva, il disegno di Renzi».

Ha veramente vinto la vecchia Italia, l’Italia che non vuole cambiare, e ha perso la modernità?

«No. Questa è proprio la narrazione che viene smentita. Ha vinto un’Italia, soprattutto di giovani, dicono i primi dati, che non ha abboccato al potere, che giocava ad accarezzare simbologie antipolitiche e che invece puntava a dividere, a rendere tutti più soli. E c’è stata poi una questione sociale incompresa – che è ciò che ci diciamo tutte le elezioni, inutilmente – una questione sociale incompresa da anni, e che certo non poteva riconoscersi nella rincorsa di politiche neo notabiliari, di mancette date a pioggia».

Cosa resterà della comunicazione muscolare di questi mesi?

«Il voto di questa domenica segna l’insuccesso dell’arroganza al potere, dell’occupazione illimitata del fronte del video: mancava solo che il presidente del Consiglio comparisse nel videocitofono e paventasse anche lì il diluvio. Tutto questo non è servito, anzi, ha prodotto un effetto di rigetto, di ripulsa, una reazione del popolo che sa evidentemente ancora distinguere il potere eccessivo. Sul fatto che i toni cambieranno, però, non sono così convinto, anzi».

Forse mai come su questo voto si è spaccato l’elettorato, non solo il ceto politico, del centrosinistra. La frattura si potrà ricomporre?

«Tre anni di renzismo hanno distrutto tutto. Travolgendo anche il centrosinistra e il Partito democratico – che comunque era, bene o male, l’ultima presenza significativa nel sistema dei partiti. Il mito della velocità non solo non ha velocizzato nulla, dunque (tutte le riforme caraterrizzanti del governo si stanno infrangendo e dovranno esser riscritte, perdendo tempo: l’Italicum, la riforma delle banche e quella del pubblico impiego, la riforma costituzionale…), ma lascia dietro di sé solo macerie. Tra cui quelle dello stesso Renzi, però: la sua carriera è finita, e la storia della sua leadership che si ricostruisce in pochi mesi di opposizione, in tempo per il 2018, fa parte della mitologia costruita da palazzo Chigi e dai media. Un falso. Renzi si è sgonfiato come un pallone».

Ma il fatto che si sia sgonfiato può aiutare la sinistra a riorganizzarsi?

«Il fatto che Renzi si sgonfi è la condizione per ricostruire qualcosa. Ma non è l’unica. Il Pd, ad esempio, dovrebbe archiviare il mito della leadership, e una certa sinistra dovrebbe rinunciare all’idea che possa esistere una sinistra, magari arancione, subalterna ai desideri del capo».

Lo sconfitto ha un nome. Il vincitore chi è? Il primo a dichiarare è stato Salvini, abbiamo visto ovunque Brunetta sorridente…

«Che la destra abbia avuto un peso in questa vittoria lo testimoniano i dati che arrivano dalle regioni del Nord. Ma anche gli elettori di sinistra sono un pezzo importante del successo, con almeno 6 milioni di voti, così come una maggioranza dell’onore è sicuramente da riconoscere al Movimento 5 stelle. Il punto incompreso è che questo è però un bene: tutti gli appartenenti al fronte del No sono stati determinanti, e lo sono stati perché quella di domenica è stata una vittoria di popolo, una vittoria contro un potere arrogante. Che è l’altra faccia di quella che Renzi, infastidito proprio dal popolo, chiama non per nulla “accozzaglia”».

Una domanda sul dopo. Va cambiata la legge elettorale o si può andare al voto così, come dicono i 5 stelle, appena arriva la sentenza della Corte sull’Italicum?

«Il disastro l’ha creato ancora una volta il governo, che nel mito del fare presto ha fatto approvare dal Parlamento una legge elettorale valida per la sola Camera, dando per abolito un Senato che ora rimane lì, vivo e vegeto. Una follia che, ancora una volta, non è stata fermata da chi poteva farlo. Però è chiaro che adesso c’è un problema, perché la legge deve esser omogenea per i due rami del Parlamento: non è possibile votare senza una parvenza di omogeneità. Occorreranno dunque alcuni mesi, e bisognerà vedere e rispondere a ciò che chiederà la Corte, che magari indicherà un quorum per il secondo turno, almeno, o l’addio alle liste bloccate. È ovvio che i 5 stelle ora spingano per andare al voto, perché il referendum per loro (ma anche per Renzi) è stata soprattutto una simulazione del ballottaggio. Ma bisognerebbe quindi mostrare una certa responsabilità politica e non accelerare in maniera strumentale».

Serve quindi un altro governo?

«Serve un governo di una figura istituzionale, magari vicino al fronte del No, che rapidamente metta mano alla legge elettorali e poi porti al voto il Paese, magari già a giugno».

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.