Il 2016 è l’anno del Brexit, dell’elezione di Trump, e ora del tracollo referendario di Renzi. Si tratta di tre dimostrazioni lampanti di quanto forte sia diventata la spinta anti-establishment. Le élite (ex) social-democratiche e la destra classica continuano a proporre politiche che non servono a migliorare la condizione dei più colpiti dalla crisi, e la maggioranza invisibile non avendo un progetto politico e sociale cui votarsi, reagisce con l’unico strumento a sua disposizione: il voto contrario.
I media mainstream di molti Paesi occidentali continuano a discutere di populismo come fosse solo un fenomeno reazionario e di destra. La sua accezione negativa (prevalente), affibbiata dai sostenitori dello status quo neoliberale, tende a svuotare di significato la parola stessa – orientandola verso l’estrema destra – nel tentativo di rendere poco credibile la proposta di una politica fatta partendo dal senso comune del popolo.
Tuttavia, l’ascesa del Movimento 5 Stelle e quella di Podemos in Spagna, hanno mostrato che il populismo – come suggerito dal filosofo politico Argentino Ernesto Laclau – può essere declinato anche in senso progressista. Queste forze politiche vengono definite “populiste” in virtù del contenuto della loro narrazione: il riavvicinarsi alle esigenze del popolo come soluzione alla crisi di rappresentanza che imperversa nella politica di tutto il mondo occidentale. Il populismo democratico cerca d’intercettare un largo consenso elettorale ispirandosi al senso di comunità, come contrapposizione all’individualismo cui la società è oggi soggiogata, individuando i nemici del popolo nel vertice della piramide economica e incolpandoli per l’attuale stato di cose (l’1% contro il 99% porta to alla ribalta da Occupy). In ogni caso, il filo comune è quello di un fermento ideologico che viene dal basso e che cerca di rompere il dualismo destra/sinistra proponendo un discorso nuovo, legato inestricabilmente all’incapacità della vecchia politica di rappresentare le istanze degli “ultimi”. Anche i populismi progressisti stanno raccogliendo moltissimi consensi, nonostante spesso si siano dovuti arrendere alle regole di quelle élite che volevano combattere (vedi il caso greco). Anche in Italia inizia a nascere una corrente di pensiero ispirata dall’idea del populismo democratico. Un esempio è Senso-Comune, un manifesto nato in risposta alla crisi di rappresentanza politica (http://www.senso-comune.it/manifesto/).
Il manifesto mira a riallineare l’operato delle Istituzioni alle esigenze del popolo per garantirgli centralità nel processo decisionale, come cura al crescente astensionismo e all’indifferenza degli elettori verso le questioni politiche. Di matrice riformista, il manifesto promuove un modello di populismo democratico volto a unire sotto un unico tetto la maggioranza invisibile per non lasciarla nelle mani delle forze conservatrici e reazionarie. Compito in origine affidato al Movimento 5 Stelle, che continua a raccogliere il voto di poveri, precari e disoccupati, ma non sembra in grado di proporre una proposta politica adeguata. Senso-Comune propone di superare l’impasse attraverso la costruzione di un welfare più universale, politiche economiche anti-cicliche e una seria lotta alla corruzione, affrontando il problema della sovranità limitata spostando il fulcro del processo decisionale verso la base della piramide sociale. La maggioranza invisibile ne uscirebbe così rafforzata. Il populismo democratico viene interpretato come presa di coscienza del popolo contro l’oligarchia, come la comunità contro l’autoreferenzialità dei moderni partiti, incapaci intercettare il cambiamento e di dargli giusta rappresentanza. In sintesi, il populismo democratico vorrebbe affidare “le chiavi della città” agli ultimi e al loro senso comune. Resta da vedere se e in che misura il populismo democratico saprà rivelarsi uno strumento decisivo per riassorbire la frattura sociale che domina la nostra epoca e a contrapporsi a quello reazionario che si espande a macchia d’olio.
L’articolo è tratto da Left in edicola dal 10 dicembre