È arrivata all’improvviso la post-verità, come un temporale d’estate. Ma non mancavano le avvisaglie. La tempesta generata da bufale e fake news infatti era all’orizzonte spiega Carlo Sorrentino, professore di Sociologia dei processi culturali all’Università di Firenze, sull’ultimo numero di Left. «Frottole in giro ce ne sono sempre state, ciò che cambia nell’epoca della comunicazione digitale è il contesto di fruizione e la velocità di circolazione delle informazioni. Ed è proprio la velocità di scambio a determinare veri e propri gorghi in cui siamo risucchiati, talvolta rischiando di perdere la giusta prospettiva e l’opportuna proporzione di fatti e fenomeni». Il web in sostanza, immenso, caotico e allergico alla complessità, è l’ambiente perfetto, con le sue echo chambers, per permettere alle bufale di circolare e soprattutto di prosperare. Sì, prosperare, perché parlare di fake news e disinformazione oggi significa anche, e soprattutto, parlare di profitti. È lo stesso modello di business che si è sviluppato con il capitalismo digitale a favorire infatti la diffusione di notizie false acchiappa-click. La soluzione per arginare l’epidemia di bufale dunque, come scriviamo sul numero di Left in edicola, è ripensare da capo il modello economico sul quale si regge il capitalismo digitale. Scommettere su una verità non definita dai click ma dai fatti, conviene a tutti. Le fake news cavalcano sentimenti di ansia e allarmismo, generano spesso caos e paura, minano la coesione sociale. In un’epoca di incertezza come la nostra, per dirla con Bauman, questo è un lusso che non possiamo permetterci. Per capire quali possono essere le conseguenze reali di notizie false basta guardare alle bufale che imperversano su temi scientifici e medici. Presunte cure miracolose e bufale che fanno ammalare sulle quali Simona Maggiorelli ha discusso con il medico Roberto Burioni e il divulgatore scientifico Massimo Polidori del Cicap per cercare di capire quale sia la strategia migliore per difendersi da ciarlatani, guru e santoni. Dalle campagne anti vaccini, alla leggenda di un nesso fra vaccino e autismo, passando per la truffa di Stamina e le false promesse del metodo Di Bella. Ma la questione è anche una questione prettamente democratica, basta pensare alla recente campagna americana nella quale Hillary Clinton è stata bersagliata di accuse spesso fasulle e infondate, una su tutte quella di gestire un giro di pedofilia con il caso “pizzagate” che ha quasi portato a una strage, e alla vittoria di Donald Trump.  Un candidato che alla prova del fact-checking durante i dibattiti nell'80% dei casi affermava il falso, ma che, a quanto pare, piaceva alla gente perché lontano dal mondo dell'establishment di cui la gente ormai non si fida. Se la post-verità imperversa è anche perché, e in questo la disintermediazione generata dalla rete aiuta molto, il paradigma dell'esperto è in crisi, peggio, all'interno di un'architettura reticolare come quella del web, non funziona più, funziona molto meglio parere della gente comune. L'uomo della strada ha vinto sul professore, questo a volte finisce per elevare le chiacchiere e le convinzioni da bar a un rango che supera la realtà, post- appunto. Allora, visto che le bufale vanno a braccetto con il populismo, forse davvero si potrebbe dire che questo è l'anno della post-verità tanto quanto è l'anno della rinascita dei populismi. Della gente che mette in discussione l'establishment, con esiti che non sempre sono positivi: lo abbiamo visto con Trump, ma anche con Brexit. C'è una vignetta del New Yorker che girava in rete in questi giorni riassumendo bene l'atteggiamento di inconsapevolezza diffusa per cui si finisce con il credere alle scie chimiche e pretendere giurie popolari per giudicare i media (brutti, cattivi e servi dei poteri forti). Dice così: «Questi piloti spocchiosi hanno perso il contatto con i passeggeri comuni come noi. Chi pensa che dovrei guidare io l'aereo?» Ecco il fatto è anche questo, internet ci ha abituato a considerare la nostra opinione sempre pertinente e rilevante, anche quando non lo è. Ci ha regalato l'illusione di poter arrivare dappertutto (e far tutto) senza sapere nulla, per certe cose è stato così, sicuramente abbiamo accesso a molte più informazioni, ma questo non significa essere per forza in possesso delle competenze per comprendere qualsiasi tipo di informazione. Nanni Moretti si lamentava in Sogni d'Oro di chi commentava qualsiasi cosa senza conoscere nulla e diceva: «Parlo mai di astrofisica io? Io non parlo di cose che non conosco!». Oggi gli si potrebbe rispondere: è la post-verità, bellezza. [su_divider text="In edicola" style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

Di post-verità parliamo sul numero di Left in edicola dal 14 gennaio con interviste e approfondimenti

 

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È arrivata all’improvviso la post-verità, come un temporale d’estate. Ma non mancavano le avvisaglie. La tempesta generata da bufale e fake news infatti era all’orizzonte spiega Carlo Sorrentino, professore di Sociologia dei processi culturali all’Università di Firenze, sull’ultimo numero di Left. «Frottole in giro ce ne sono sempre state, ciò che cambia nell’epoca della comunicazione digitale è il contesto di fruizione e la velocità di circolazione delle informazioni. Ed è proprio la velocità di scambio a determinare veri e propri gorghi in cui siamo risucchiati, talvolta rischiando di perdere la giusta prospettiva e l’opportuna proporzione di fatti e fenomeni». Il web in sostanza, immenso, caotico e allergico alla complessità, è l’ambiente perfetto, con le sue echo chambers, per permettere alle bufale di circolare e soprattutto di prosperare. Sì, prosperare, perché parlare di fake news e disinformazione oggi significa anche, e soprattutto, parlare di profitti. È lo stesso modello di business che si è sviluppato con il capitalismo digitale a favorire infatti la diffusione di notizie false acchiappa-click. La soluzione per arginare l’epidemia di bufale dunque, come scriviamo sul numero di Left in edicola, è ripensare da capo il modello economico sul quale si regge il capitalismo digitale. Scommettere su una verità non definita dai click ma dai fatti, conviene a tutti.

Le fake news cavalcano sentimenti di ansia e allarmismo, generano spesso caos e paura, minano la coesione sociale. In un’epoca di incertezza come la nostra, per dirla con Bauman, questo è un lusso che non possiamo permetterci. Per capire quali possono essere le conseguenze reali di notizie false basta guardare alle bufale che imperversano su temi scientifici e medici. Presunte cure miracolose e bufale che fanno ammalare sulle quali Simona Maggiorelli ha discusso con il medico Roberto Burioni e il divulgatore scientifico Massimo Polidori del Cicap per cercare di capire quale sia la strategia migliore per difendersi da ciarlatani, guru e santoni. Dalle campagne anti vaccini, alla leggenda di un nesso fra vaccino e autismo, passando per la truffa di Stamina e le false promesse del metodo Di Bella. Ma la questione è anche una questione prettamente democratica, basta pensare alla recente campagna americana nella quale Hillary Clinton è stata bersagliata di accuse spesso fasulle e infondate, una su tutte quella di gestire un giro di pedofilia con il caso “pizzagate” che ha quasi portato a una strage, e alla vittoria di Donald Trump.  Un candidato che alla prova del fact-checking durante i dibattiti nell’80% dei casi affermava il falso, ma che, a quanto pare, piaceva alla gente perché lontano dal mondo dell’establishment di cui la gente ormai non si fida.

Se la post-verità imperversa è anche perché, e in questo la disintermediazione generata dalla rete aiuta molto, il paradigma dell’esperto è in crisi, peggio, all’interno di un’architettura reticolare come quella del web, non funziona più, funziona molto meglio parere della gente comune. L’uomo della strada ha vinto sul professore, questo a volte finisce per elevare le chiacchiere e le convinzioni da bar a un rango che supera la realtà, post- appunto. Allora, visto che le bufale vanno a braccetto con il populismo, forse davvero si potrebbe dire che questo è l’anno della post-verità tanto quanto è l’anno della rinascita dei populismi. Della gente che mette in discussione l’establishment, con esiti che non sempre sono positivi: lo abbiamo visto con Trump, ma anche con Brexit. C’è una vignetta del New Yorker che girava in rete in questi giorni riassumendo bene l’atteggiamento di inconsapevolezza diffusa per cui si finisce con il credere alle scie chimiche e pretendere giurie popolari per giudicare i media (brutti, cattivi e servi dei poteri forti). Dice così: «Questi piloti spocchiosi hanno perso il contatto con i passeggeri comuni come noi. Chi pensa che dovrei guidare io l’aereo?»

Ecco il fatto è anche questo, internet ci ha abituato a considerare la nostra opinione sempre pertinente e rilevante, anche quando non lo è. Ci ha regalato l’illusione di poter arrivare dappertutto (e far tutto) senza sapere nulla, per certe cose è stato così, sicuramente abbiamo accesso a molte più informazioni, ma questo non significa essere per forza in possesso delle competenze per comprendere qualsiasi tipo di informazione. Nanni Moretti si lamentava in Sogni d’Oro di chi commentava qualsiasi cosa senza conoscere nulla e diceva: «Parlo mai di astrofisica io? Io non parlo di cose che non conosco!». Oggi gli si potrebbe rispondere: è la post-verità, bellezza.

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