Con il trasferimento di Angelino Alfano alla Farnesina, la gestione dei capitoli scottanti di politica estera sembra appaltata al Viminale

Alla Farnesina si è insediata un’ombra di ministro: Angelino Alfano. La sua conoscenza del mondo è pari a zero e quando da titolare del Viminale ha dovuto fare i conti con questioni extranazionali ha provocato disastri (ricorderete, su tutti, il caso Shalabayeva). Dunque, meno appare e meglio è. Tuttavia, il fatto che a sostituirlo nella gestione dei dossier più caldi sia il neoministro degli Interni, qualche riflessione la impone. Il rischio, già in atto, è che vi sia una sorta di “securizzazione” delle relazioni internazionali, una riduzione di fatto di questioni cruciali come quella dei migranti a problema di ordine pubblico. E questo non può passare.

Non può passare l’idea del ministro degli Interni che dice «sicurezza sia una parola di sinistra» ma, soprattutto, non può passare per buono il fatto che il nostro Paese sia nuovamente alla ricerca, nel Mediterraneo – «centro del disordine globale» come dice l’attuale premier Gentiloni – di “gendarmi” a cui affidare il compito di contenere l’“invasione” di chi è in fuga da guerre, repressione, sfruttamento, della cui esistenza quei “gendarmi” sono i primi responsabili. Perché è questo che sta accadendo. Il caso libico è emblematico. E non solo perché l’Italia ha puntato, per la stabilità di un Paese dove a farla da padrone sono ancora milizie e tribù in armi, sul “cavallo” sbagliato, il più debole e meno riconosciuto, l’attuale premier Fayez al-Sarray. Lì l’Italia ha riproposto con il nuovo governo libico (che non controlla neanche la capitale, Tripoli) il “modello Gheddafi”, l’accordo sul controllo dei flussi migratori, sottoscritto a suo tempo dal raìs e dall’allora presidente Silvio Berlusconi. Quel modello si fondava sulla completa – e colpevole – assenza di ogni riferimento al rispetto dei diritti umani. Gheddafi doveva “contenere”, non importava come, l’arrivo sulle nostre coste di eritrei, somali, dei disperati che cercavano in Europa non il benessere consumista ma l’affermazione del primo fra i diritti: quello a vivere. Le carceri del Colonnello (come oggi quelle del siriano Assad) erano lager dove ogni forma di violenza su donne e uomini era pratica quotidiana. Ma non importava, e non importa. Come non importa che se il Mediterraneo si è trasformato nel “mare della morte” è anche perché i gendarmi cercati e finanziati dall’Europa erano i capi di regimi che non solo producevano le cause di questa fuga di massa, ma in molti casi ne traevano benefici facendo affari sul traffico degli esseri umani.

Questo e non altro è la “securizzazione” dell’emergenza migranti, che dovremmo contrastare e che fa il paio con la riproposizione “regionalizzata” dell’esperienza fallimentare dei Cie. Ed è gravissimo. Perché l’Europa delle frontiere blindate ha delegato all’Italia il compito di fare altri accordi “modello Gheddafi” con altri Paesi di origine o di transito di migranti. Questo insano “modello” dovrebbe essere bissato con alcuni tra i più brutali regimi che da decenni fanno scempio di legalità nel Vicino Oriente e in Nord Africa: in Eritrea, Nigeria, Niger, Sudan, Egitto. Ma questo è l’orizzonte angusto di un’Unione europea che, rimarca la direttrice delle campagne di Oxfam in Italia, Elisa Bacciotti, «confonde gli obiettivi della cooperazione allo sviluppo che ha come scopo l’aiuto alle persone costrette a lasciare la propria casa, con quelli della cooperazione di sicurezza, che invece serve a impedire a quelle stesse persone di entrare in Europa». «In altre parole – aggiunge Baccioti – l’Ue rischia di dare priorità al controllo delle frontiere e alla sicurezza piuttosto che alla salvezza di persone che si trovano in grave stato di bisogno». Ciò significherebbe utilizzare il costituito Fondo fiduciario per sradicare la povertà, costruire scuole, cliniche e non muri di filo spinato e checkpoint. Ma così non è.

L’articolo compare su Left in edicola dal 21 gennaio, dove trovate anche un punto sulla situazione in Libia

 

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