«Perché per costruire uno stadio bisogna fare un intero quartiere?» si domandava, già prima di entrare in Campidoglio e prima di uscirne rovinosamente, Paolo Berdini. Su Left in edicola abbiamo provato a rispondere

Paolo Berdini dice che se lui non è più assessore all’urbanistica del Comune di Roma è anche perché lui, lo stadio della Roma, non l’avrebbe mai fatto, non così, non lì dove lo vogliono invece la squadra, la proprietà e i suoi soci in affari, a partire dal costruttore Parnasi.

Nel numero di Left in edicola da sabato 18 febbraio noi vi diciamo però che non è proprio così, e che Paolo Berdini non è più assessore della giunta Raggi perché ha pagato una figuraccia enorme, che rimane figuraccia anche se si immagina che tutto sia stato «un tranello», come dice lui, che si sia fidato di un giornalista che gli ha attribuito testualmente frasi che lui gli aveva chiesto di usare nella solita formula dell’anonimo malumore interno. Vi raccontiamo, su Left in edicola, invece, che la figuraccia di Berdini ha indebolito le ragioni del No, che pure c’erano, quelle che l’ex assessore stava cercando di portare avanti, finendo di spianare una strada che però – e qui ha ragione Berdini – era forse già spianata.

Su Left in edicola, e qui in digitale, si parla anche dello stadio della Roma

 

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Spianata proprio dal Movimento 5 stelle. Perché ad aver cambiato idea sullo stadio è stato proprio il Movimento, con una giravolta definitiva, con la sindaca Virginia Raggi che, quando a volere lo stadio era solo Marino e la sua maggioranza, depositava, assieme agli allora semplici consiglieri comunali d’opposizione, esposti in procura (che fine hanno fatto, gli abbiamo chiesto?) e oggi invece si accontenta di una rimodulazione del progetto, un taglio di cubature a cui (sostiene Caudo) non è escluso possa seguire un conseguente taglio delle opere pubbliche, che il privato realizza in cambio proprio delle generose cubature extra, che sono il triplo di quanto il piano regolatore prevederebbe per l’area dell’ex ippodromo di Tor di Valle. Opere pubbliche che mai erano state così tante, bisogna notare, in proporzione all’investimento speculativo e quindi sono la ragione per cui, se non si può o vuole fermare tutto, forse sarebbe meglio non toccare niente – e questo va riconosciuto al progetto concordato con la precedente giunta, anche partendo dal presupposto che l’area l’ha scelta il privato e che certo (come dice Berdini) lo stadio sarebbe stato meglio farlo in altro luogo, approfittandone per ricucire un territorio senza stravolgere il piano regolatore.

A far cambiare idea a sindaca e colleghi, peraltro, è stato proprio Beppe Grillo, come vi raccontiamo sempre in edicola con l’articolo di Ilaria Giupponi. Grillo ha infatti incontrato i vertici dell’As Roma già un paio di mesi fa, facendosi convincere dal dg Mauro Baldissoni. E via con la giravolta, pronti a sostenere le ragioni del business (che sono anche vere, alcune, e ve le raccontiamo), dicendo che i posti di lavoro, gli investimenti, le infrastrutture valgono bene (adesso) lo strappo al piano regolatore approvato solo pochi anni fa.

Per permettervi di prender parte al dibattito che impazza sui social – stadio sì, stadio no – vi raccontiamo però anche come funziona altrove, all’estero, e del perché se i nostri stadi negli anni 90 erano all’avanguardia, tempo dieci anni ed erano vecchissimi, schiantati dal modello inglese e poi, ad esempio, dagli stadi tedeschi o da quello (lo avete mai visto?) di Bilbao. Matteo Marchetti, portandovi a spasso per mezzo mondo, vi spiegherà che alla fine per avere stadi da top club (posto che si decida di volere top club) ci sono sostanzialmente due modi: il primo è quello della speculazione – che all’estero è spesso fatta sull’area dei vecchi impianti, abbandonati per il nuovo – e il secondo è quello dell’investimento pubblico, con impianti realizzati o ristrutturati, magari per un grande evento, e lasciati poi ai club.

Il caso della Roma è una speculazione, quindi, sì, lo è in maniera indiscutibile. Ma è un po’ diversa da quelle viste altrove, perché qui non c’è uno stadio di proprietà da monetizzare e però non si vogliono spendere soldi pubblici né mettere sul piatto (come invece suggerisce l’assessore di epoca Veltroniana, Morassut, e come sarebbe forse più logico, forzando non il piano regolatore ma altri vincoli architettonici) i vecchi impianti pubblici, l’Olimpico e il Flaminio. Non si può e comunque non ci sono i soldi, si dice, per dotarli di ciò che serve, tra metro e parcheggi. Ma si vuole «per la città» uno stadio nuovo. Lo si vuole: #Famostostadio. E si chiede di fare tutto al privato, che cerca altrove un equilibrio. Lo fa andando persino oltre quello che prevede la legge sugli stadi? Ne parliamo in edicola.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.