A sostegno del modello italiano si citano i buoni lavoro usati in Francia e Belgio. A sproposito però. Perché in quei Paesi i voucheristi non sono “imprenditori di se stessi” ma godono di pieni diritti sociali e sono equiparati ai lavoratori subordinati. Ecco come funzionano

Al lavoro precario e gratuito pare non esserci alternativa. In Italia, il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro è stato negli ultimi vent’anni caratterizzato da una forte aggressività, in grado di spogliare di qualsiasi diritto i lavoratori. Una dinamica non isolata nel panorama europeo, a partire dal grande compromesso tedesco delle riforme Harz, per continuare con le riforme spagnole e i contratti a zero ore del Regno Unito. L’alibi per ogni nuova riforma è il così fan tutti, poi usato come giustificazione perfetta per affermare l’ineluttabilità delle scelte politiche, e non economiche, alla base della svalutazione del lavoro. Un simile ragionamento è stato adottato anche riguardo la regolamentazione del lavoro accessorio, i voucher o buoni lavoro per intenderci. I casi francese e belga vengono spesso citati come simili al nostro sistema, ma la realtà, come ormai spesso avviene, risiede da tutt’altra parte.

Il lavoro occasionale, in Francia, è gestito tramite gli chèque emploi service universel (CESU) limitati esclusivamente alle prestazioni di lavoro a domicilio per un massimo di otto ore settimanali o quattro settimane consecutive. Il lavoratore occasionale è riconosciuto come lavoratore subordinato (salarié) a tutti gli effetti e non un lavoratore senza vincolo di dipendenza come nel caso italiano. Soprattutto, al lavoratore sono riconosciuti tutti i diritti propri di un lavoratore subordinato. A partire dalla remunerazione, che in nessun caso può essere inferiore al salario minimo (lo Smic) cioè 8,2 euro orari (circa 1400 euro mensili), fino al riconoscimento dei diritti quali la malattia, le ferie pagate, il cumulo per il diritto all’assegno di disoccupazione. Inoltre, le disposizioni contenute nel decreto sulla tracciabilità, erette dal governo italiano come strumento salvifico contro gli abusi, fanno intrinsecamente parte del dispositivo del CESU, il pezzo di un ingranaggio, niente di più. Accanto al CESU generico, esiste una variante assimilabile ai voucher corrisposti dalle aziende sotto forma di welfare aziendale per i propri dipendenti, il Cesu “prefinanziato”. In questo caso, il datore di lavoro compila in favore di un proprio dipendente il buono lavoro che quest’ultimo potrà poi utilizzare per retribuire a sua volta il lavoratore a domicilio. Rimangono tutti i diritti menzionati sopra e la retribuzione minima (lo Smic), che in ogni caso può essere integrata dall’utilizzatore con un Cesu generico. In breve, il diritto francese attribuisce anche ai lavoratori occasionali pieni diritti sociali e li equipara ai lavoratori subordinati, secondo un principio non più in voga in Italia: il lavoratore che, anche per brevissimi periodi, presta la sua forza lavoro a terzi che ne determinano le condizioni e tempi di lavoro, è un lavoratore subordinato, non un imprenditore di se stesso o un collaboratore.

Anche il modello belga, denominato titres-services appare ben distante da quello italiano, sebbene la sua introduzione segue la stessa idea del legislatore italiano: far emergere dal nero i lavoretti domestici. Innanzitutto, per la rigidità sui campi oggettivi di applicazione: i titres-servics sono utilizzabili esclusivamente per i servizi di pulizia e stiratura. Inoltre, il committente privato e il lavoratore non entrano in contatto diretto bensì tramite una agenzia convenzionata. Un sistema, quindi, che assomiglia più a un mix tra il lavoro in somministrazione italiano. Anche in questo caso, il lavoratore è un subordinato dell’agenzia o impresa con la quale stipula un “contrat de titres-service”, che può essere a tempo determinato o indeterminato. In ogni caso, il contratto a termine non può superare i tre mesi, pena l’automatica conversione a tempo indeterminato. Per quanto concerne il valore, ogni titolo costa all’utilizzatore, cioè il committente, 9 euro e può acquistarne un minimo di dieci e un massimo di 500 per ogni anno solare. A livello familiare, una coppia potrà acquistarne massimo di 1.000. Un’eccezione si applica alle famiglie monoparentali, alle persone disabili e ai genitori con figli disabili i quali possono acquistare fino a un massimo di 2.000 titolo per anno solare. La remunerazione oraria minima del lavoratore è 10,34 euro, superiore ai 9 euro pagati dal committente e al salario minimo (attualmente di 8,94 euro per ora lavorata). In particolare, la regione di appartenenza versa all’agenzia 22 euro, di cui 9 sono quelli versati dall’utilizzatore. Con questa somma, l’agenzia paga la retribuzione al lavoratore più tutti i costi sociali e previdenziali. Anche in questo caso i voucher nel sistema belga costituiscono un contratto subordinato di fatto, seppure gestito attraverso dei ticket per le prestazioni effettuate. Come per il caso francese, il lavoro occasionale è equiparato a quello subordinato in termini di diritti assistenziali come la disoccupazione, la malattia, le ferie ecc.
Poche affinità e molte divergenze tra il sistema dei voucher italiano e il lavoro pagato attraverso ticket in

Francia e Belgio. Soprattutto, sebbene la tendenza europea, ma non solo, alla precarizzazione del mercato del lavoro sembra ormai prassi egemonica, bisogna riconoscere che le categorie giuridiche utilizzate dai nostri vicini non hanno subito il fascino, tutto italiano, di escludere ad ogni costo il lavoro dal suo carattere di subordinazione solo perché svolto per un esiguo (in teoria) numero di ore. Come si diceva all’inizio, l’intenzione del legislatore italiano di ridurre il costo del lavoro per le imprese, o anche per i privati non imprenditori, è stata portata avanti con una dose massiccia di aggressività che ha in ultima istanza prodotto un segmento del mercato del lavoro spogliato di qualsiasi diritto presente e futuro. Una realtà ben lontana da chi, proponendo e poi approvando il Jobs Act, sosteneva di voler eliminare le discriminazioni interne al mercato del lavoro. La reale apartheid creata nel orso degli anni e avallata dal Jobs Act non può essere mascherata o sottratta a un principio di realtà, quello che quotidianamente sempre più lavoratori vivono.