Donald Trump stanotte parlerà al Congresso riunito. È la prima volta che accade dalle elezioni. Si tratta dell’equivalente del discorso sullo Stato dell’Unione, ma non si chiama così perché il primo anno il presidente non ha esattamente qualcosa da raccontare su quanto da lui fatto. Questa almeno è la normalità, nel senso che Trump ha già detto in più di un’occasione che «nessun presidente ha mai fatto tante cose in così poco tempo, ridotto il deficit e creato lavoro». Chissà se in un’occasione tanto ufficiale, il presidente deciderà di proseguire con i toni belligeranti e insulterà di nuovo i media o, finalmente, comincerà a elencare quale sia la sua agenda legislativa, quali leggi chiede che vengano approvate dal Parlamento americano.
Probabilmente parlerà molto di immigrazione, Isis e legge di bilancio. Lo ha già fatto nei giorni passati e, ieri ha annunciato che chiederà un aumento di spesa di 54 miliardi per il Pentagono. Si tratta più o meno del 10% del totale e non è chiaro se i piani sul rinnovamento dell’arsenale nucleare – che a dire il vero è già in corso – rientrano in questo aumento di spesa. Per pagare questa spesa Trump propone tagli per tutte le altre spese discrezionali delle altre agenzie, a cominciare da quella per la protezione dell’ambiente, la Environmental Protection Agency e il Dipartimento di Stato. Il primo taglio significa meno regole e meno applicazione di quelle esistenti relative a limiti per le emissioni, inquinamento delle acque e così via. I secondi, solo l’1% del budget federale, sono tagli alle spese per l’aiuto allo sviluppo e a fondi internazionali come quelli per la protezione e assistenza dei rifugiati e, forse, i contributi alle agenzie Onu, che dipendono in buona parte da dollari americani. Nessun taglio, almeno in teoria, ai programmi di welfare pubblico – che beneficiano soprattutto gli anziani poveri, la parte centrale dell’elettorato repubblicano. Su questo Trump entrerà in conflito con il suo partito, la cui posizione, sostenuta da anni contro Obama, è che ogni legge di bilancio che si rispetti deve prevedere tagli al welfare.
Vedremo, non si tratta di un piano dettagliato e neppure di una cosa fatta, ma di una direzione indicata: il presidente vuole aumentare le spese militari, scese del 15% tra il 2011 e lo scorso anno. Il bilancio del Pentagono è diminuito a causa di tagli, di un risparmio dovuto al ritiro delle truppe dall’Iraq e anche per una riorganizzazone dell’esercito e dell’idea del suo ruolo – meno guerre a tutto campo, più attività di controinsurrezione, che richiedono meno mezzi e capacità di mobilitazione di grandi numeri di uomini e infrastrutture militari. Il nuovo presidente ritiene che quella sia stata una scelta sbagliata. Oppure pensa che mostrare agli americani che l’America spende di più per il proprio esercito faccia parte del far tornare l’America grande, il suo slogan elettorale vincente.
A oggi gli Usa spendono più delle altre otto potenze militari comparate – ma i dati sono difficili da confrontare, che il bilancio del Pentagono e quello degli altri ministeri della guerra non sono gli unici capitoli di spesa legata a guerre ed eserciti. Non solo, in una lettera pubblica, 120 generali e alti ufficiali tra ci più importanti e rispettati (ex capi dello staff dell’esercito, della Cia, delle truppe in Iraq e Afghanistan, della Nato), chiedono di non tagliare i fondi per la diplomazia e gli aiuti allo sviluppo, altrettanto vitali che non la spesa militare per garantire la sicurezza degli Stati Uniti. Spendere meno in aiuti e diplomazia, è ovvio, significa anche perdere peso a livello mondiale. Non è solo sui missili che si regge l’autorevolezza di un Paese.
La spesa militare Usa comparata a quella dei Paesi che spendono di più
Le promesse alla classe media possono aspettare: a guadagnare da meno regole ambientali e più spesa per gli armamenti saranno i giganti del petrolio e il complesso militare industriale – le azioni in Borsa delle imprese di questi settori vanno a gonfie vele da quando Trump si è insediato. Eppure Trump aveva promesso un enorme piano di infrastrutture. Di queste è tornato a parlare, ma su queste lo scontro con il partito potrebbe essere ancora più aspro. Per ora il piano è stato ridimensionato dal punto di vista della entità e si parla molto di Private Financial Initiative, ovvero il privato ci mette i soldi e poi ha diritti di sfruttamento dell’opera stessa. Per molte opere infrastrutturali non funziona e le perdite sono a carico del pubblico.
Per ottenere i tagli Trump dovrà negoziare con le agenzie, alle quali chiederà di dettagliare i potenziali tagli e con il Congresso. Una trattativa lunga che i repubblicani sperano di poter terminare prima della chiusura estiva. In questi mesi le agenzie federali obietteranno alle idee di Trump – nessun ministro, neppure quello più contrario alla spesa pubblica – vuole che i tagli avvengano proprio nel campo in cui è lui ad agire e dover rispondere all’opinione pubblica. E poi ci sono i tetti di spesa imposti dal Congresso a Obama nel 2011, durante una crisi che ha portato lo Stato federale sull’orlo del default. Quei tetti prevedono che senza una fonte di entrata, non si possano aumentare le spese di una determinata agenzia. Trump potrebbe chiedere al Congresso di eliminare o alzare il tetto per il Pentagono e le spese militari.
L’attesa, per ora, è per il discorso al Congresso, lo spettacolo va in onda nella notte fonda italiana. Staremo a vedere se si tratterà dell’ennesimo show senza dettagli pensato per parlare direttamente al popolo americano o se cominceremo a scoprire qual’è l’agenda Trump. Nei giorni scorsi lo stratega Steve Bannon ha ribadito che l’idea è quella di distruggere il sistema di regole attraverso la «decostruzione dello Stato amministrativo». Un’agenda radicale alla quale i democratici, che hanno appena eletto l’obamiano Tom Perez a capo della loro organizzazione, dovranno contrapporre idee, strategia parlamentare intelligente e capacità di mobilitazione.