Cifre sbagliate, toni meno apocalittici e sostanza che non cambia. Davanti al Congresso, Trump ribadisce la sua idea di far tornare l'America grande contrapponendo gli americani agli immigrati e cancellando la riforma sanitaria Obama.

Se vi capiterà di leggere più di un articolo sul discorso di Donald Trump davanti al Congresso degli Stati Uniti, probabilmente leggerete che il presidente ha finalmente fatto il presidente, mostrando una faccia moderata. Non è così. Certo, una notizia è che Donald Trump si è finalmente comportato bene, non ha insultato nessuno, non ha attaccato i media, né gli avversari politici. L’altra notizia è che, sebbene con toni meno aggressivi del solito, la sostanza politica, nella sua prima performance istituzionale – dopo il discorso inaugurale – non cambia: il suo è un programma nazionalista e populista di destra. E il partito repubblicano, che sembrava preoccupato dalla sua presidenza, è con lui. (qui il discorso completo)

La prima volta davanti alle camere riunite del Congresso era una grande occasione per uscire finalmente dal campaign mode e per mostrare la volontà di lavorare con il Parlamento per produrre leggi. In teoria lo ha fatto. In pratica meno. Su immigrazione, tasse, scuola, riforma sanitaria, spese militari, Trump non cambia di una virgola, salvo dire: «Chiedo a democratici e repubblicani di lavorare con me». Per poi aggiungere «per eliminare e sostituire quel disastro che è Obamacare». Certo, Trump ha cominciato ricordando l’importanza del Black History Month, il mese che celebra la storia degli afroamericani, condannato gli attacchi ai cimiteri ebraici – che si sono moltiplicati da quando è stato eletto – e l’uccisione di un ingegnere indiano da parte di un estremista che sparando ha gridato «torna al tuo Paese». Ci mancherebbe, Trump non è Hitler e non vuole diventarlo. Ma se ha cominciato il discorso così è per riparare ai silenzi e alle gaffe dei giorni scorsi, non perché quei temi gli stiano davvero a cuore.

Trump parla di riforma dell’immigrazione fatta in Congresso, sostenendo di voler incentivare quella qualificata e chiudere agli altri. Sarebbe già un passo avanti, ma sull’idea di cacciare i clandestini (11 milioni di persone) non si muove di un millimetro. Quel che gli sta a cuore è costruire il muro con il Messico, chiudere le frontiere all’immigrazione e applicare in maniera restrittiva la legge: «L’America deve mettere prima i suoi cittadini, perché solo così possiamo farla ridiventare grande, Chiunque in Congresso dica che le leggi non vanno applicate chiedo: cosa direte alle famiglie che perdono il reddito, il lavoro, i loro cari?». Ovvero: ci rubano il lavoro, le donne, sono criminali. Solo detto senza parlare di bad hombres, canaglie.

Se ci fossero dubbi sulla retorica pericolosa del presidente, l’esempio perfetto che nulla è cambiato è l’annuncio della creazione di un ufficio, denominato Voice, che pubblicherà le liste di tutti i crimini commessi dagli immigrati – anche regolari, probabilmente – una specie di lista nera. Del resto, su Breibart News, il sito diretto da Steve Bannon c’è una sezione che si chiama Black List che elenca i crimini commessi dagli afroamericani. Le liste, nella storia, non sono mai state una buona cosa.

 

Quelli che seguono sono i primi passaggi del discorso, un po’ tagliati. L’agenda è la solita, le promesse non necessariamente coerenti e i dettagli praticamente assenti. Come in tutto il discorso o quasi.

«Non permetterò che gli errori degli ultimi decenni plasmino il corso del nostro futuro. Per troppo tempo, abbiamo guardato inerti la middle class decadere, mentre esportavamo i nostri posti di lavoro e la nostra ricchezza in Paesi stranieri. Abbiamo finanziato e costruito un progetto globale dopo l’altro, ma ignorato il destino dei nostri figli a Chicago, Baltimora, Detroit … Abbiamo difeso i confini di altre nazioni, lasciando i nostri confini aperti a chiunque – e facendo passare droga come mai. E abbiamo speso miliardi e miliardi di dollari all’estero, mentre le nostre infrastrutture si sbriciolavano.
Poi, nel 2016, la terra ha tremato sotto i nostri piedi. La rivolta è cominciata come una protesta silenziosa…poi le voci silenziose divennero un coro rumoroso … infine la gente si è presentata a decine di milioni con un’unica domanda cruciale: l’America deve scegliere i propri cittadini per primi…
le industrie che muoiono torneranno ruggire i veterani avranno le cure di cui hanno disperato bisogno. Ai nostri militari saranno date le risorse che quei valorosi guerrieri meritano. Le infrastrutture fatiscenti saranno sostituite con nuove strade, ponti, gallerie, aeroporti e ferrovie luccicanti…La terribile epidemia di oppiacei finirà …e nei nostri centri urbani trascurati rinasceranno speranza, sicurezza e opportunità».

Più spese militari, più infrastrutture, riforma delle tasse (e loro taglio), taglio delle spese di molte agenzie, meno regole, meno immigrati. Tutto condito con l’ossessiva ripetizione di “America first”, una frase presa di peso dalla retorica suprematista bianca, qualche concessione alle minoranze (i centri città abbandonati sono quelli dove vivono i neri e i latinos, una legge sulla scuola).

 

E poi la solita serie di inesattezze e bugie quando si parla di numeri: «tutti gli attentati terroristici dopo l’11 settembre sono stati compiuti da gente che veniva da fuori del Paese». Non è vero. «Le imprese hanno ripreso a investire grazie a me», falso, alcune multinazionali hanno grandi piani economici, ma erano già stati scritti. «Il flusso di droga è senza precedenti». No, cocaina e marijuana sono in calo. «Gli oleodotti che ho autorizzato produrranno decine di migliaia di posti di lavoro». Le stime dicono meno di 5mila. L’elenco di cifre inesatte è lungo e il Washington Post lo fa tutto.

In politica estera Trump ha moderato i toni, placato le polemiche con la Nato («ma devono spendere di più per i loro eserciti») e promesso dialogo e forza. In questo caso, come in quello della celebrazione iniziale del Black History Month, le parole scelte sono necessarie per riparare gaffe fatte in precedenza.

Il nodo centrale della politica di Trump e dei repubblicani è però la riforma fiscale. L’ipotesi è quella di cambiare la corporate tax introducendone una diversa e abbassare le aliquote. La prima parte potrebbe avere senso: la corporate tax non rende gli investimenti deducibili fiscalmente. Abbassare le aliquote sarebbe però un regalo alle corporations. Come del resto le spese militari e l’idea di tornare a incentivare l’uso del petrolio veicolata dalla ripartenza dei due mega progetti di oleodotto. Quanto alla riforma della scuola, Trump parla di risorse e di libertà di scelta: ovvero diamo dei bonus anche ai poveri così da incentivarne le iscrizione a scuole private e religiose.

C’è poco da farsi ingannare, il primo discorso di Trump davanti al Congresso è solo meno incendiario, meno apocalittico di quello fatto per l’inaugurazione. E cerca anche di rimediare a danni fatti dallo stesso presidente in occasioni in cui ha parlato a ruota libera – i suoi Segretari, specie quelli che si occupano di relazioni internazionali hanno spesso dovuto intervenire per smentire quel che Trump aveva dichiarato. Ma la sostanza è tutta la. L’unica vera novità, oltra al tono, è quella di un presidente che sembra aver capito – ma quanto durerà? – che se vuole durare deve cambiare atteggiamento. E che, sebbene lavorare con lui sarà difficile e su tasse e Obamacare ci saranno tensioni, i repubblicani hanno scelto di stare disciplinatamente con il loro presidente. Nemmeno queste, in fondo, sono buone notizie.