«Al MoMA, la prima volta, voltato un angolo misi radici davanti alle pieghe di una tovaglia bianca di Cézanne. Una natura morta. Eppure che vita e che nitore di tratto! Da quella luce, nella distanza, mi venne la prima lezione. Ricordo le scale del museo disposte in distici. L’autorità del marmo. Ricordo che quasi mi tramortì l’esattezza delle proporzioni e del disegno, in quel banchetto italiano: vedere non è un atto ma un’arte. E poi il tocco di rosa, deciso, all’interno della coscia di un cane bianco che si rintana sotto la tavola nella Cena a casa di Levi, così brillante e preciso che il battito del polso pensai che si fermasse. Nulla, nel muto frastuono che si leva dai fiori di perla ricamati dalla luce sulle maniche a sbuffo, sulle barbe a punta e sui calici cavi, valeva quell’animale che annusa nella foresta di gambe calzate. Era il miracolo che esce dalla cornice, l’epifania di un dettaglio che illumina un’epoca intera… Tra me e Venezia la coscia di quel segugio, la mia reverenza per le cose comuni; e anche se ne scrivo seduto sopra lo scalino di questo distico, l’immagine del cane, quel prodigio nella luce, io non l’ho più rivista. Sfumano le cose. E chi le ha dipinte. Tiepolo come Veronese, nella calca che gesticola, tra colonne e drappeggi, archi e balaustre, e figure che sporgono dalla terrazza».
Così Derek Walcott, il poeta caraibico scomparso pochi giorni fa, sapeva far incontrare poesia, pittura e pienezza di vita. Nella quotidianità degli incontri, sullo sfondo dell’azzurro e verde abbagliante di Santa Lucia, la piccola isola dove viveva, come nella metropoli: a New York, come racconta in questi versi in cui evoca un quadro di Veronese, a Boston dove insegnava, oppure a Milano, a Venezia. a Firenze ( dove abbiamo avuto la dortuna di incontrarlo grazie alla Fondazione il Fiore) e in altre città che amava in Italia. Quei viaggi generavano nella sua scrittura prospettive inaspettate dalla finestra di un albergo, fuggevoli sguardi dal finestrino di un treno. Nella Giornata mondiale della poesia che ogni anno si celebra il 21 marzo, vogliamo ricordare questo straordinario poeta, saggista, traduttore, regista, che si è cimentato anche con la pittura. Un uomo della risata cordiale e fragorosa. Colpiva la sua schietta franchezza, la sua spontaneità, il silenzio incuriosito con cui si rivolgeva all’altro, sconosciuto. L’opera che ci ha lasciato si snoda come un potente epos contemporaneo, un flusso ininterrotto di poesia, prosa lirica, mescolando i generi, i linguaggi, come nel poema narrativo Tiepolo’s Hound pubblicato nel 2000 da Farrar, Straus and Giroux, con una ventina di riproduzioni di oli, acquarelli e guache dello stesso Walcott, paesaggi e marine di Santa Lucia, un autoritratto e un intenso ritratto di Sigrid, la sua compagna.
Walcott (che lo scorso 23 gennaio aveva compiuto 87 anni) non è il poeta delle piccole cose coltivate «in un cantuccio dell’anima». Che cos’è la poesia? «È un’espressione di stupore», diceva. «La grande, grandissima poesia, di sicuro è qualcosa che va oltre la vita di chi la scrive. E per sua natura, per il fatto che è costruita sul ritmo, la poesia è incantagione – incantesimo – e in quanto incantesimo è celebrazione». Anche se la sua opera ha una dimensione classica e modernista, è libera da quel pessimismo intellettuale e da quel cinismo tipico di certi intellettuali europei del Novecento, come è stato notato dalla critica. È anche questa freschezza che caratterizza Omeros, l’opera (pubblicata in Italia da Adelphi) che gli è valsa il Nobel nel 1992, un poema di 7.566 versi in cui, utilizzando echi dai dialetti caraibici, Walcott ha saputo ricreare e rivitalizzare la lingua inglese: lo ha fatto evocando le ombre del passato coloniale, articolando una profonda denuncia in una lingua inglese che, come Walcott diceva spesso, per lui non era la lingua del padrone. Lui ha saputo farne una lingua icastica e viva per evocare immagini di dee in riva al mare con sandali di plastica, del tassista Hector, del pescatore Achilles che si contendono le attenzioni di una ragazza dalla pelle color ebano…. Con la poesia e con il suo teatro Derek Walcott è stato il cantore delle vittime dello schiavismo, ne ha messo in luce la bellezza, dando immagine e parole al riscatto della storia caraibica. Rifiutando il veleno dell’odio e del rancore.