Lo scrive a penna - come sempre in stampatello - nell’ultima newsletter: «Numeri impressionanti, viva la democrazia, grazie a tutti». Così esulta Matteo Renzi che ha raccolto il 68 per cento dei consensi tra gli iscritti al Pd, nella prima parte del percorso congressuale. Che - apriamo una brevissima parentesi per chi non fosse così informato sulle regole - prevede che i pretendenti alla segreteria si sfidino prima nei circoli e solo poi, e solo chi avrà raccolto almeno il 5 per cento, si misurino nei gazebo, dove potranno votare anche i non iscritti, chiunque si dichiari elettore del Pd e versi due euro. Primarie che saranno il 30 aprile. Ci si arriverà dunque così: Matteo Renzi - con una buona partecipazione, percentualmente superiore a quella del 2013 (59 a 55%) anche se numericamente inferiore - ha sfiorato il 70 per cento, al netto delle immancabili polemiche sui conteggi, che comunque non dovrebbero cambiare di molto la vicenda. È invece al 26 per cento Andrea Orlando e poco sopra la soglia del 5 per cento, sul 6 per cento, Michele Emiliano che noi abbiamo intervistato sul numero di Left in edicola, cercando di capire cosa ha spinto uno che dice di aver con Renzi una “visione opposta del mondo” a tentare la sfida nel partito, e non a seguire Bersani & co. Possono stare nello stesso partito due visioni opposte del mondo? Bah. Comunque: il risultato. Renzi si mostra stupito, in realtà si confermano i pronostici. E noi azzardiamo ora una previsione ulteriore. Il consenso di Renzi crescerà ancora nei gazebo, diminuirà quello di Orlando, avanzerà ma di poco quello di Emiliano. Il perché è presto detto. Con la scissione - che ne è una conseguenza ma ha confermato il processo - il Pd è mutato in quello che gli oppositori chiamano Pdr - partito di Renzi - rimanendo però, al tempo stesso, il partito della fondazione, maggioritario e leaderistico in tempi che però sono ormai (finalmente per noi) proporzionali e - ma solo in parte - in overdose da leader e decisionismo. Quindi Orlando - che intervisteremo nel prossimo numero di Left - sarebbe stato perfetto segretario di un partito che però non esiste se non nella sua mozione e che non interessa iscritti dissetati per anni con distillati di maggioritario; Renzi invece ha confermato agli iscritti - a quelli rimasti - il disegno delle origini e potrà ora aggiungere al consenso degli iscritti quello degli elettori dem. O meglio dei suoi elettori. Che saranno tanti ma, appunto, suoi. Sono anche di sinistra, alcuni, ma sono elettori convinti dalle solite e retoriche ragioni “governiste”, che partono dal falso di una sinistra irresponsabile, di soli gufi. A loro Renzi piace. Ma fuori?

Lo scrive a penna – come sempre in stampatello – nell’ultima newsletter: «Numeri impressionanti, viva la democrazia, grazie a tutti». Così esulta Matteo Renzi che ha raccolto il 68 per cento dei consensi tra gli iscritti al Pd, nella prima parte del percorso congressuale. Che – apriamo una brevissima parentesi per chi non fosse così informato sulle regole – prevede che i pretendenti alla segreteria si sfidino prima nei circoli e solo poi, e solo chi avrà raccolto almeno il 5 per cento, si misurino nei gazebo, dove potranno votare anche i non iscritti, chiunque si dichiari elettore del Pd e versi due euro. Primarie che saranno il 30 aprile.

Ci si arriverà dunque così: Matteo Renzi – con una buona partecipazione, percentualmente superiore a quella del 2013 (59 a 55%) anche se numericamente inferiore – ha sfiorato il 70 per cento, al netto delle immancabili polemiche sui conteggi, che comunque non dovrebbero cambiare di molto la vicenda. È invece al 26 per cento Andrea Orlando e poco sopra la soglia del 5 per cento, sul 6 per cento, Michele Emiliano che noi abbiamo intervistato sul numero di Left in edicola, cercando di capire cosa ha spinto uno che dice di aver con Renzi una “visione opposta del mondo” a tentare la sfida nel partito, e non a seguire Bersani & co. Possono stare nello stesso partito due visioni opposte del mondo? Bah.

Comunque: il risultato. Renzi si mostra stupito, in realtà si confermano i pronostici. E noi azzardiamo ora una previsione ulteriore. Il consenso di Renzi crescerà ancora nei gazebo, diminuirà quello di Orlando, avanzerà ma di poco quello di Emiliano. Il perché è presto detto. Con la scissione – che ne è una conseguenza ma ha confermato il processo – il Pd è mutato in quello che gli oppositori chiamano Pdr – partito di Renzi – rimanendo però, al tempo stesso, il partito della fondazione, maggioritario e leaderistico in tempi che però sono ormai (finalmente per noi) proporzionali e – ma solo in parte – in overdose da leader e decisionismo.

Quindi Orlando – che intervisteremo nel prossimo numero di Left – sarebbe stato perfetto segretario di un partito che però non esiste se non nella sua mozione e che non interessa iscritti dissetati per anni con distillati di maggioritario; Renzi invece ha confermato agli iscritti – a quelli rimasti – il disegno delle origini e potrà ora aggiungere al consenso degli iscritti quello degli elettori dem. O meglio dei suoi elettori. Che saranno tanti ma, appunto, suoi. Sono anche di sinistra, alcuni, ma sono elettori convinti dalle solite e retoriche ragioni “governiste”, che partono dal falso di una sinistra irresponsabile, di soli gufi. A loro Renzi piace. Ma fuori?

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.