Chi abusa un bambino è un grave malato mentale, nonostante ciò che afferma la psichiatria americana nel DSM-5 e con buona pace della Chiesa cattolica. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali definisce la pedofilia un disturbo del comportamento sessuale e la inserisce tra le parafilie. Le caratteristiche essenziali di questo “disturbo” sarebbero quindi: fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitanti sessualmente che riguardano: oggetti inanimati; la sofferenza o l’umiliazione di se stessi o del partner; bambini o altre persone non consenzienti. Nel catechismo insegnato ai bambini che devono fare la prima comunione, la pedofilia è equiparata alla lussuria e con essa è inserita nella lista delle offese alla castità. Nel Codice di diritto canonico si parla di «atto sessuale di un chierico con un minore», che è considerato un’offesa a Dio e quel “con” dice che non si tratta di una violenza psicofisica agita da un adulto contro un bambino e mette entrambi i soggetti sullo stesso piano. “Abuso morale” l’ha definito Benedetto XVI nel 2013 e di recente anche papa Francesco nella premessa all’autobiografia di una vittima di sacerdote pedofilo. Da un lato c’è l’idea della psichiatria organicista che tende a fornire un alibi “biologico” ai pedofili: essendo persone nate con una connettività cerebrale fatta in un certo modo non sono responsabili di essere come sono. Dall’altro, c’è quella religiosa secondo cui l’abuso è un “atto impuro” (VI Comandamento), cioè un peccato. Di conseguenza i responsabili, secondo la visione degli appartenenti al clero, devono risponderne a Dio, nella persona del suo rappresentante in terra, e non alle leggi della società civile di cui fanno parte. Entrambe le impostazioni, sebbene il fanciullo in età prepuberale non ha e non può mai avere la sessualità, affermano di fatto che lo stupro di un bambino è in realtà un atto sessuale a cui partecipa la stessa vittima. Quindi, la pedofilia rientrerebbe nell’ordine naturale delle cose e non essendoci un violentatore di conseguenza non c’è nemmeno il violentato.
L’idea che il bambino abbia una propria sessualità e che finisce per giustificare il pedofilo non appartiene solo a queste due correnti di pensiero apparentemente distanti tra loro. Basti pensare a Michel Foucault e a molti altri intellettuali francesi difensori della cosiddetta “pedofilia dolce”. Secondo l’icona del Sessantotto e padre della presunta “rivoluzione sessuale”, se il bimbo non si rifiuta non c’è violenza. Questo diceva in una tristemente nota intervista del 1977: «Si può fare al legislatore la seguente proposta? Con un bambino consenziente, con un bambino che non si rifiuta, si può avere qualunque tipo di rapporto, senza che la cosa rientri nell’ambito legale?… Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto – e allora? Ci sono bambini che acconsentono, rapiti. Sarei tentato di dire che, se il bambino non si rifiuta, non c’è alcuna ragione di sanzionare il fatto, qualunque esso sia». Il pensiero di Foucault ha inciso nella formazione di molti intellettuali delle generazioni successive. Tra i più noti c’è Daniel Cohn-Bendit che nel suo libro Le Grand Bazar, scrive: «Mi è successo che qualche bimbo mi aprisse la cerniera dei pantaloni e iniziasse ad accarezzarmi. Io reagivo in modo diverso a seconda delle circostanze. Il loro desiderio mi creava dei problemi. E chiedevo: “Perché giocate con me e non con gli altri?”. Ma quando loro insistevano, io li accarezzavo». Concetti ribaditi durante il programma televisivo “Apostrophes” del 23 aprile 1982. E poi l’11 marzo 2010 in un’intervista al settimanale tedesco “Die Zeit”, uscita nel pieno dello scandalo pedofilia che ha travolto la Chiesa cattolica in Germania, Cohn-Bendit ha commentato al giornale che le norme «repressive» in vigore prima del 1968 avevano provocato «danni», ma ha sottolineato che è necessario saper imporre dei limiti. Per poi concludere: «È giusto riconoscere ai bambini e agli adolescenti la loro forma di sessualità, ma il fatto che gli adulti impongano ai bambini le loro regole sessuali sotto delle apparenze libertarie va contro la stessa emancipazione». Come dire, se il bimbo è consenziente per di più istigatore che male c’è? È difficile comprendere come un minore possa essere complice di una violenza che subisce, salvo non ipotizzare come Sigmund Freud che i bambini siano polimorfi perversi quindi potenziali seduttori di adulti. In ogni caso dalle frasi di Foucault e Cohn-Bendit, intrise di mentalità freudiana, emerge un pensiero finalizzato a colpevolizzare la vittima, che viene ritenuta corresponsabile per attenuare la gravità del gesto dell’adulto.
Pensiero e mentalità che di tanto in tanto riaffiorano e ci vengono riproposti surrettiziamente nelle forme più disparate. Come ad esempio nel nuovo romanzo di Walter Siti Bruciare tutto, il cui protagonista è un prete pedofilo che riesce a resistere alle avances di un bambino. Il quale, a causa del rifiuto ricevuto, si suicida. Di qui tutto il tormento del sacerdote che nemmeno tanto tra le righe appare come un dito puntato contro le leggi morali (terrene e non) dietro cui il prete si trincera per resistere alla “tentazione”, e che dunque sarebbero le vere responsabili della morte del ragazzino. Di più non vogliamo dire anche per non fare pubblicità a un libro letto con grande fatica ma difficile da ignorare, così come l’intera pagina di recensione firmata da Michela Marzano su Repubblica del 13 aprile scorso. È letteratura quella di Siti? si chiede Marzano che definisce il romanzo «inaccettabile». Forse la domanda è un’altra: si può definire romanzo la narrazione apologetica di un pensiero falso? A tal proposito c’è una ulteriore considerazione da fare. Non una sola riga della Marzano è dedicata a confutare la perversa idea che il bambino, coprotagonista suo malgrado diremmo noi, abbia una sessualità e il desiderio e che quindi cerchi il rapporto sessuale con l’adulto. È pertanto lecito chiedersi perché per Michela Marzano e Repubblica il romanzo di Siti sarebbe inaccettabile. Lo spiega la filosofa al termine della recensione: «È troppo comodo, per uno scrittore, utilizzare la narrazione e nascondersi dietro la licenza del creare. La letteratura ha le spalle molto larghe, certo. Ma può sostenere anche il peso dell’assoluzione?». Quindi il problema sarebbe “solo” il tentativo di giustificare la violazione della norma, morale o penale che sia. Possiamo anche essere d’accordo su questo, ma il bambino e la sua realtà umana in questo suo argomentare dove stanno?
Proviamo a fare un po’ di chiarezza, interrogando la moderna psichiatria. «Il bambino non ha sessualità, punto» osserva lo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini, direttore della rivista Il Sogno della Farfalla. «Per sessualità s’intende una dimensione che riguarda l’adulto, che prevede lo sviluppo puberale, che prevede la presenza di tutta una serie di realtà fisiche e biologiche, prima di tutto, e mentali, che il bambino non ha. Tutta la sua dimensione di rapporto, che è potentissima, si svolge in un ambito che possiamo chiamare “di affetti” che di sessuale non ha assolutamente nulla, e non lo può nemmeno avere. Possiamo pertanto ribadire che, mutuando il pensiero aristotelico prima e quello della Bibbia poi, Freud teorizza che il bambino non “esiste”».
All’inizio si diceva che il pedofilo è un grave malato mentale (oltre a essere un criminale). Perché? «Il bambino rappresenta quell’immediatezza, spontaneità, vitalità che il pedofilo ha irrimediabilmente perduto per vicende personali» spiega la psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti. «Giustamente – aggiunge – c’è chi ha definito l’abuso su di un minore come ‘omicidio psichico’: non ha niente di sessuale in quanto è un’azione, una pulsione se vogliamo usare una terminologia psichiatrica, che va contro la potenzialità psichica ed evolutiva del bambino. Ciò che però è caratteristico del comportamento pedofilo è il suo essere sottoposto a un controllo razionale: se la pulsione omicida, compulsiva e ripetitiva, rappresenta l’aspetto psicopatologico della pedofilia, il controllo razionale gli conferisce una qualità criminale. Infatti quest’ultimo consente, fino a un certo punto, di evitare le conseguenze penali oltre che l’utilizzo di sofisticate strategie di scelta e di avvicinamento delle vittime». Cosa accade al bambino che subisce l’abuso? «Tradito da una figura importante di riferimento, il minore può andare incontro a uno stato dissociativo, a una grave depressione reattiva, a sensi di colpa intensi che minano il senso della propria identità. Nel caso in cui le vittime siano soggetti prepuberi, ciò che si va a colpire è la possibilità del rapporto uomo-donna. Qualcosa di analogo accadeva nella relazione fra maestro e allievo nell’antica Grecia: questa era imposta in un momento critico della vita del fanciullo, quando la maturazione del corpo, fondendosi con la realtà mentale, poteva far emergere il desiderio verso la donna».
Articolo pubblicato su Left del 29 aprile 2017