La fermezza imprescindibile di un ideale contro la voluttà infernale del populismo e la sua violenza espressiva. Le sfumature vocali dei due attori in scena, Francesca Lepiane e Marco Strocchi, ripercorrono la vita folgorante di Renato Del Din attraverso emozioni contrastanti, prese di coscienza e attimi di oblio, come quando il partigiano morì nella notte tra il 24 e il 25 aprile del 1944, guidando l’assalto di soli tredici patrioti della Brigata Osoppo contro l’intero presidio nazifascista di Tolmezzo, capoluogo della Carnia, in Friuli. Colpito mortalmente durante la nottata in cui furono lanciate quaranta granate ed esplosi centinaia di colpi, il giovane sottotenente degli Alpini cadeva a terra, ma non ancora domato, si rialzava gridando «Viva l’Italia! Osoppo avanti!», finché una nuova raffica non ne stroncava il respiro.
Per l’ottantesimo anniversario della Liberazione la prima dello spettacolo “Il fuoco ci prenda” si tiene proprio oggi, venerdì 25, alle 20.30, al Teatro Candoni di Tolmezzo, dove si compì il destino di Renato, medaglia d’oro al valor militare. L’ufficiale ventunenne scelse di lanciarsi contro la caserma della milizia di Mussolini, per il suo odio viscerale nei confronti dei repubblichini e delle camicie nere, da lui definite «livide persone che hanno venduto l’anima, così come domani venderanno la sorella, al miglior offerente». Lo spettacolo della compagnia bolognese Solve Coagula, con la regia del giornalista e scrittore Alessandro Carlini, è realizzato dalla Nuova Pro Loco di Tolmezzo; mentre la data successiva, lunedì 28, alle 21, nella quattrocentesca Sala della Musica di Ferrara, è organizzata dall’Istituto di Storia contemporanea.
L’alternanza tra dialoghi e monologhi stringenti rispecchia l’animo duplice del ragazzo friulano, che se da un lato perde la vita con un’azione considerata da lui stesso “molto concreta” e “decisiva” su quel fronte, dall’altro sconta un atteggiamento idealistico insostenibile per un individuo, tanto da non sembrare nemmeno un figlio del secolo breve. La determinazione e l’integrità risorgimentale che lo muovono dalla prima battuta presagiscono che non possa arrivare incolume al seconda metà del Novecento. Renato si oppone con tutto se stesso – e dunque il sacrificio invocato de facto dalla sorella Paola Del Din – alla legalizzazione dello squadrismo e alla corruzione del carrierismo militare fascista a scapito della nazione che professavano di proteggere.
Sullo sfondo della narrazione, invece, scorrono foto originali e video dell’Istituto Luce, che cominciano dall’infanzia di Renato, dallo strettissimo rapporto con la sorella, che poi sarà a sua volta staffetta dell’Osoppo e agente del servizio segreto britannico (Soe) proprio per vendicare il fratello ucciso dai nazifascisti con il nome di battaglia di Renata. I due attori entrano nel vivo della scelta di Renato, nel suo antifascismo iniziato con l’idea di non giurare di fronte al Duce e maturato sin dai tempi dell’Accademia militare di Modena. Vengono riletti e interpretati i suoi scritti e le sue lettere scambiate con un amico, un altro ufficiale degli Alpini che aveva aderito alla Repubblica di Salò. Il dialogo tra i due è travolgente, due Italie si scontrano, due idee opposte di patria: quella fascista e mortifera che aveva demolito il regio esercito a cui Renato era devoto, e quella della Resistenza, purificatrice e di rinascita comunitaria.
Tratto dal romanzo biografico Se il fuoco ci desidera (Utet, 2024) di Carlini, il titolo si ispira all’incipit di una poesia del protagonista, radicale quanto la sua esistenza: «Se il fuoco ci desidera il fuoco ci prenda». Lo spettacolo ha le potenzialità e le risorse del teatro civile, con uno spazio scenico essenziale e pochi oggetti sul palco, tutti fortemente simbolici: dalla macchina da cucire che con il ticchettio ricorrente allude all’incedere della sorte nefasta di Renato, al cappello da Alpino, alla giubba divenuta un idolo devozionale per le donne di Tolmezzo che al pari della tragedia di Antigone sfidano le autorità rappresentate dai nazifascisti, e organizzano i funerali solenni del partigiano caduto, senza sapere chi fosse. Senza la necessità di saperlo. Le donne diventano protagoniste indiscusse, solerti, non più soltanto custodi della memoria di Renato, ma combattenti; come accadde nella cruda realtà del 27 aprile ’44, quando a Tolmezzo il corteo guidato da loro, poiché gli uomini temevano rappresaglie, avanzava nel capoluogo carnico intonando i salmi. Il loro passaggio proseguiva indisturbato, fra i militari armati fino ai denti e le mitragliatrici appostate nelle vie secondarie, che restarono in silenzio. Si pregava, non si sparava. Presero la via del cimitero e passarono davanti alle sentinelle nere che rodevano di rabbia, ma non mossero un dito, non fiatarono.
Quelle donne pagarono un prezzo per un emblema volutamente innominato: nello specifico una tra tutte, Maria Agata Bonora, finì in un campo di concentramento e spirò per le condizioni patite in prigionia dopo la fine della guerra. Tuttavia i rischi che si potevano correre all’epoca, ossia essere arrestati, interrogati, torturati, deportati o persino fucilati, non contavano per Renato, Paola e le donne di Tolmezzo. Una voce ritorna ostinata e indiscutibile che rammenta alla platea: «È rischioso, ma è più rischioso non farlo».
ph.© Serena Campanini
L’autore: Matteo Bianchi è giornalista e curatore di rassegne letterarie come Elba book festival