Troncare le proprie radici, abbandonare gli affetti, sfidare la morte attraversando deserti e mari possono minare la salute mentale di chiunque. Tuttavia non tutti i migranti si ammalano. Mentre per alcuni lo stress post migratorio sfocia in malattia nell’impatto con il Paese ospite, come mai? Risponde la psichiatra Rossella Carnevali

Probabilmente, se il 7 maggio scorso il giovane maliano di 31 anni non avesse deciso di suicidarsi lungo i binari in prossimità della Stazione centrale di Milano, davanti a centinaia di passeggeri dei treni in transito, la sua morte non sarebbe finita sui giornali. Era uno dei tanti cittadini stranieri “invisibili” che vivono in Italia nei centri di accoglienza con il permesso di soggiorno per protezione internazionale (ca. 180mila, fonte “Rapporto Osservasalute 2016”). Le cronache riportano che la sua identificazione è stata possibile grazie al rilievo delle impronte digitali. Era nel nostro Paese da almeno un anno e mezzo. E il suo permesso di soggiorno per motivi umanitari era in corso di rinnovo a Modena. Si era lasciato alle spalle un Paese che dal 2012 è lacerato da un conflitto alimentato, specie al nord e da qualche tempo anche al centro, da gruppi di miliziani jiahidisti legati ad Al Qaeda. L’invisibile di Milano era un migrante forzato, uno degli oltre 5mila cittadini maliani arrivati in Italia tra il 2015 e i primi mesi del 2016 per fuggire alle atrocità della guerra. La cause del gesto estremo sono ignote ma fanno inevitabilmente pensare a una grave depressione ed è lecito chiedersi se poteva essere evitato e se il disagio del ragazzo era stato intercettato e adeguatamente seguito nelle strutture in cui ha vissuto. La salute – compresa quella mentale – non è solo un diritto costituzionale, è un diritto umano. Peraltro è pur vero che a volte la diffidenza e la paura di essere rimpatriati, alimentate da campagne stampa xenofobe, nonché una scarsa conoscenza del nostro sistema sanitario, spinga gli stranieri in difficoltà lontano da chi potrebbe curarli. Per fare chiarezza su quali siano le problematiche da affrontare nell’approccio medico con i migranti rifugiati o richiedenti asilo, Left ha rivolto alcune domande a Rossella Carnevali, psichiatra e psicoterapeuta.

Certe esperienze possono minare la salute di un individuo in misura molto profonda? «Certo, ma questo non basta altrimenti i migranti che arrivano in Italia dopo aver sfiorato la morte ogni secondo del loro viaggio dovrebbero ammalarsi tutti, invece non è così. A seconda della storia di vita e dello sviluppo dell’identità, ogni essere umano è in grado di resistere in misura maggiore o minore agli eventi avversi o traumatici o alle delusioni e quindi cadere o meno nella malattia. La migrazione, in quanto cambiamento radicale della vita dell’individuo, rappresenta di per sé un fattore stressante ma la reazione a tale evento non è sempre patologica e dipende da diversi fattori, individuali e non». Ciò detto, aggiunge Carnevali, «gli immigrati hanno una vulnerabilità alle patologie mentali maggiore rispetto a quella della popolazione ospitante: un rifugiato su 10 soffre di disturbo postraumatico da stress (Ptsd), uno su 20 di depressione, e maggiore è anche l’incidenza di schizofrenia tra gli immigrati di I ma soprattutto di II generazione».

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Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).