Sono le carceri i luoghi in cui più facilmente una persona può strutturare una visione estremista della religione. Ma chi si fa saltare in aria uccidendo sconosciuti inermi invocando un dio, è un criminale o un malato di mente?

L’attentatore libico di Manchester apparteneva a una famiglia “radicalizzata”, ha scritto la stampa in questi giorni dando per scontato che tutti comprendano: l’emergenza mondiale della Jihad ha fatto sì che tutti riconoscano nella “radicalizzazione” la genesi universale del terrorismo. La penetrazione progressiva del concetto di radicalizzazione nell’ambito delle scienze sociali, a partire dal 2001, anno dell’attentato alle Torri Gemelle, ha segnato un cambiamento di prospettiva. Da uno studio dei gruppi considerati nel loro insieme che hanno usato la violenza ideologica-religiosa dando a essa un significato politico si è passati a considerare gli individui, la loro soggettività, i loro percorsi e le interazioni all’interno delle “cellule” a cui aderiscono: si tratta di cogliere delle traiettorie, dei cambiamenti che si effettuano in un tempo più a meno lungo per poi sfociare eventualmente nell’attentato. La radicalizzazione si situa nel punto d’incontro di tre coordinate: il contesto socio-culturale, la situazione personale, l’adesione a un gruppo “estremista” facilitata da Internet o dalla permanenza in strutture carcerarie nelle quali operano dei “reclutatori”.

Il termine radicalizzazione pertanto da una parte implica l’adesione a idee estremistiche dall’altra il rischio del passaggio all’atto violento. Naturalmente giustificare verbalmente la violenza è altra cosa dal metterla in atto. Secondo uno studio del 2015 del deputato Sébastien Pietrasanta in Francia la popolazione dei i radicalizzati è costituita per il 25 per cento da minori, il 35 da donne, il 40 da convertiti all’Islam (la metà dei quali si reca in una zona di combattimento). I due terzi di quest’insieme hanno un’età compresa fra i 15 e i 25 anni: si tratta di soggetti nei quali il passaggio dall’adolescenza all’età adulta espone, in particolari condizioni familiari e ambientali, al rischio di una crisi di identità prolungata. In Italia, come testimoniano gli studi del settore, il fenomeno radicalizzazione è sicuramente molto meno rilevante che in Francia, ma interessa ugualmente persone molto giovani, in prevalenza di sesso maschile, concentrate per lo più nelle regioni del nord est e del Nord ovest. Anche nel nostro Paese le carceri sono il luogo in cui più facilmente si struttura una visione estremista dell’Islam.

Com’è che si passa da una visione radicale a un’azione terroristica ? Chi è veramente il terrorista e perché soprattutto giunge a compiere stragi così sconcertanti e brutali? È un criminale o un malato di mente?

Definire il termine “terrorismo” in una maniera univoca è quanto mai difficile perché esso rischia di diventare una categoria al di fuori della storia utilizzato con riferimento a fenomeni molto diversi da loro: prima di essere l’oggetto di una definizione esso è un’ accusa, carica di valenze polemiche e passionali che serve a squalificare e depoliticizzare. Nella contemporaneità la parola per effetto di una mutazione semantica, ha assunto il significato di strategia violenta diretta contro lo stato. Originariamente invece “Il terrore” a partire dal governo giacobino del 1793, indicava una forma di violenza interna allo stato moderno, una forma di coercizione politica esercitato contro le opposizioni, che si distingueva dalla guerra cioè dall’esercizio della forza rivolta all’esterno. Il diplomatico e storico Chateaubriand scrisse che il regno del terrore di Robespierre non era stato l’invenzione di pochi giganti, ma una malattia mentale sotto forma di pestilenza.

Il fatto di connettere terrore e malattia mentale è una vecchia storia. Nella Francia del XIX secolo gli psichiatri e i politici furono particolarmente solerti nel mettere in relazione il terrore rivoluzionario e la pazzia. Furono create nuove diagnosi come monomania politica, nevrosi rivoluzionaria, o paranoia riformatoria. Ma il nesso fra violenza politica e malattia mentale non può essere stabilito in modo semplicistico. E’ quanto afferma Laure Murat che ha scritto saggi sul rapporto fra psichiatria e politica nell’epoca d’oro dell’alienistica in Francia. Alla femminista e rivoluzionaria Théroigne de Mericourt, leader di un gruppo armato durante la rivoluzione francese, per esempio, fu diagnosticata da Jean Etienne Esquirol una demenza dovuta alle sue idee politiche. La sua pazzia era strettamente in relazione con i suoi convincimenti, si chiede la studiosa francese, o le idee politiche dei medici, opposte alle sue, orientarono la diagnosi?

Anche lo psichiatra americano Marc Sageman riporta il convincimento di molti suoi colleghi secondo i quali i terroristi, nella stragrande maggioranza dei casi non rivelano sintomi delle maggiori patologie psichiatriche. Come si sa però fin dagli albori della psichiatria esistono patologie molto gravi che decorrono, per lunghi periodi, in modo pressoché asintomatico. Per lo psicopatologo parigino Fethi Benslama invece non si può escludere l’importanza dell’alterazione della vita psichica nel processo di militanza estremista senza cadere in una forma di negazionismo. Secondo lo studioso la radicalizzazione islamica, dopo la sua diffusione su internet, ha cambiato natura. Divenendo un prodotto di massa è andata incontro a un depauperamento ideologico e ha lasciato spazio all’imprevedibilità e all’incoerenza di individui alla deriva.

Nel terrorismo delle Brigate rosse, che erano un gruppo paramilitare clandestino che colpiva in base a precise risoluzioni strategiche, prevaleva la paranoia ideologica di persone all’apparenza coese, mentre i terroristi islamici attuali passano dalla “normalità” alla pazzia dell’omicidio di massa per motivazioni religiose, togliendo la vita a chi si trova nel punto sbagliato nel momento sbagliato. Le vittime sono uccise, assurdamente, per quello che sono non per quello che fanno, come accadeva nell’olocausto. L’atto terroristico subisce lo svuotamento di ogni senso umano che è in qualche modo funzionale alla strategia dell’Isis: si vuole colpire su scala globale ma soprattutto in modo imprevedibile. Lo stato islamico esibisce una volontà distruttiva che è messa in atto da giovani caduti per un’improvvisa frattura, per una percezione delirante, un annullamento catastrofico che si determina all’interno della loro realtà psichica, in una condizione di totale anaffettività e onnipotenza.

A proposito di Anders Breivik, uno schizofrenico paranoide che si credeva terrorista, Massimo Fagioli scrisse che per il norvegese ammazzare 88 persone era come aver schiacciato altrettante formiche. Gli attentatori compiono esecuzioni, sgozzano, crocifiggono, amputano, bruciano, lapidano senza pietà, talvolta ridendo o cantando come al Bataclan a Parigi. Il grido di Allah akbar significa che essi credono che è Dio stesso che agisce tramite il loro braccio e pertanto niente è per loro impossibile. Le vittime non sono persone, ma solo numeri di potenziali cadaveri. La diagnosi di schizofrenia o psicosi indotta, riferita a tali individui, servirebbe soltanto a confrontare semplicemente la politica terroristica con gli schemi della psicopatologia classica: essa non ci aiuta da sola a comprendere la complessità dell’atto terroristico spesso non inquadrabile nella sintomatologia usuale.

All’attentato si arriva comunque tramite un percorso scandito da vari momenti: si ha una prima fase che è la radicalizzazione che mira a creare una vulnerabilità, un terreno predisponente, poi subentra l’adesione al piccolo gruppo che crea un rinforzo motivazionale e logistico e infine si giunge l’acting out violento che irrompe in modo imprevedibile per effetto di una sommatoria di stimoli, di contatti veicolati da internet e di inputs occasionali provenienti dall’ambiente circostante. Il futuro martire entra in un gioco d’identificazioni speculari ed eroiche che, agendo come un imbuto lo spingono a un comportamento imitativo.

Noi non sappiamo qual è il punto di rottura di ciascun soggetto radicalizzato per cui l’azione terroristica quando esplode si diffonde in modo epidemico ma nello stesso tempo a macchia di leopardo senza che fra i vari attentati ci sia una continuità logica. Dietro tutto questo c’è però una programmazione, una strategia razionale nascosta dietro un guscio mistico-religioso: essa utilizza in modo altamente efficace gli strumenti della propaganda. La malattia mentale e il suo potenziale distruttivo è alimentata lucidamente per destabilizzare gli apparati dello stato e creare il panico.

Il punto di debolezza dei paesi occidentali, rispetto all’attacco dell’Isis, consiste anche nella presenza di una psichiatria che non ha abbandonato i suoi presupposti illuministici. Gli stessi che giustificando la violenza politica avevano portato al terrore nel 1793 in Francia. Nel 1794 Philippe Pinel stesso, come riporta Laure Murat, teorizzava che per tenere a freno e sottomettere i pazienti «clamorosi» così denominati nell’archivio del Manicomio di Siena, si poteva ricorrere a «un formidabile spettacolo di terrore». La psichiatria filantropica e illuministica degli esordi aveva un fondo antiumano che fu il motivo di una sua progressiva degenerazione che raggiunse il parossismo con lo sterminio dei malati di mente durante il nazismo in Germania. Oggi, in alcuni suoi settori essa deve ancora superare i sensi di colpa per l’infamia di aver anticipato l’olocausto e, nella maggior parte dei casi, non è assolutamente in grado di affrontare e comprendere il nuovo volto del terrorismo islamico che ripropone una logica simile a quella del genocidio e una patologia mentale che può rimanere a lungo nascosta dietro un’apparente asintomaticità.

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