Il nuovo spettacolo raccontato in anteprima dall'artista romano. Un viaggio nelle periferie dove il razzismo ha preso il posto della solidarietà e dove chi ha un'App pensa di essere al centro del mondo

Trascorrere del tempo con Ascanio Celestini, che sia un’intervista o una semplice chiacchierata, è un po’ come essere catapultati all’improvviso dentro le sue storie fatte di uomini semplici in lotta per la sopravvivenza. Che poi in realtà ci siamo già dentro, solo che non le vediamo. Ecco perché ascoltare i suoi racconti è come aprire gli occhi sul mondo. Zingari e barboni, baristi e cassiere, africani e cinesi: stavolta saranno loro al centro del nuovo spettacolo, Pueblo, che debutterà il 17 ottobre al Romaeuropa Festival. Nel frattempo lui ce lo presenta in anteprima a Napoli (19-20 giugno, Napoli Teatro Festival), Pistoia (23 giugno, Pistoia Teatro Festival), Sansepolcro (Kilowatt, 15 luglio), dove andrà in scena uno studio dello spettacolo: Che fine hanno fatto gli Indiani Pueblo?.
Ascanio, ti alleni per il debutto di ottobre?
La parola “allenamento” è perfetta. Lo spettacolo è come una maratona. I tempi sono più o meno quelli. Tra la maratona e la mezza maratona. L’inizio è decisivo, ma non troppo veloce perché bisogna avere il tempo per spezzare il fiato, poi è tutto un equilibrio tra te e quelli che ti stanno intorno.
Che fine hanno fatto gli Indiani Pueblo? è un titolo curioso, che ha come sottotitolo “Storia provvisoria di un giorno di pioggia”. Qual è stato lo spunto stavolta per la nascita di questo spettacolo?
Dépaysement, la seconda parte della trilogia che inizia con Laika e finirà con I Draghi tra un paio d’anni. Quello è il titolo in Belgio e Francia dove abbiamo già debuttato, mentre in Italia si chiamerà semplicemente Pueblo. Abbiamo debuttato al festival internazionale biennale di Liége e poi a Bruxelles e Parigi. In scena eravamo Gianluca Casadei, Violette Pallaro, Patrick Bebi e io. È un pezzo del lavoro che ci sta portando verso questa versione italiana che si chiamerà Pueblo.
Cinque anni fa stavo per debuttare con Discorsi alla nazione, un racconto sul potere (su chi ha il potere e chi non ce l’ha) e Marco mi ha chiamato per farmi incontrare i facchini che lavorano nei magazzini delle società che si occupano di logistica. Facchini africani che scaricano pacchi dai grossi camion, li misurano, li pesano e li fanno ripartire su autoveicoli più piccoli. Un lavoro alienante e sottopagato. Marco l’ho conosciuto dodici anni fa perché faceva parte di un collettivo che s’occupava del lavoro precario d’un grande call center. Anche allora m’aveva cercato per raccontarmi come si lavorava in quel posto. E adesso mi cercava per raccontarmi d’un altro luogo nascosto. Spesso quello che tu chiami “spunto” mi viene proposto da qualcun altro. E io ho bisogno di persone che mi chiamano per rimettere insieme le storie di quelli che non hanno la forza per farle ascoltare.
Anche questa volta ritroviamo i tuoi luoghi preferiti: le periferie, i bar, i marciapiedi… sei come gli assassini che tornano sempre sul luogo del delitto. Loro, però, sperano, forse, di cancellare qualche traccia, tu, invece, di tracce ne lasci tante nei tuoi spettacoli.
Io cerco sempre gli stessi personaggi animati da una vita che viene raccontata solo quando accade qualcosa di estremo (furti, stupri, omicidi), mentre a me piacciono quando si tengono sul confine della notizia. Un attimo prima che arrivino i giornalisti del telegiornale regionale.
Pueblo, come dicevi anche tu prima, è la seconda tappa di una trilogia partita da Laika, spettacolo bellissimo, che segna anche una piccola svolta nella tua carriera. Ti abbiamo conosciuto e amato come affabulatore, una specie di folletto che affascina con le sue storie, con Laika, invece, sei anche tu dentro la storia, sei un povero Cristo che ha vissuto sulla sua pelle le difficoltà della vita. Anche in Pueblo incarni un personaggio? E quali saranno i temi della terza e ultima parte della Trilogia?
In Pueblo il narratore sta alla finestra e immagina le storie delle persone senza conoscerle, un po’ come fanno gli scrittori, sia quelli che cercano di capire come funziona il mondo, sia quelli che cercano di capire come funzionano nel mondo. Nella terza parte saranno i personaggi a tirare fuori lo scrittore dal monolocale in cui vive. Il monolocale del suo cervello.
Ma Pueblo vorrei che fosse il racconto di quelli che se ne stanno alla finestra. Una qualunque, la finestra dello smartphone, del computer… una qualsiasi finestra che ti fa credere di essere al centro del mondo mentre stai invece in una periferia sfigata qualunque. E da quella periferia che vive all’ombra del mondo vero (anche se ti fanno credere che il mondo vero sei tu perché hai l’App più performante, il software più democratico) senti di essere sufficientemente protetto per dire qualsiasi cosa. E allora c’è quello che dice “Noi paghiamo gli immigrati per starsene tranquilli negli alberghi” o “noi mettiamo gli zingari nelle casette che gli fa lo Stato sempre a spese nostre. E poi le hai viste le donne? Sono tutte belle grasse, mica patiscono la fame”. E poi “Per me ci vuole solidarietà e carità cristiana, ma se quelli non se ne vanno ci vuole pure la ruspa”. E ancora: “La guardia di finanza multa mia moglie perché non c’ha lo scontrino in mano quando esce dal bar. E a questi non torcono un capello anche quando è risaputo che rubano e non pagano un cazzo”.
E ancora: “In Italia ha fatto più il Gabibbo della guardia di finanza e senza andare oltre a parole”. Sembrano invenzioni letterarie, ma sono frasi che ho registrato da gente vera al bar o preso dai commenti che si trovano in rete. Il razzismo che spiegherebbe (se qualcuno ne tenesse conto) per quale motivo s’è azzerata la differenza tra destra e sinistra e perso l’istinto di solidarietà che sempre avevano le classi sociali più in difficoltà. E non vado oltre a parole!
Le tue storie partono spesso da Roma, una città oggi abbandonata in cui è sempre più difficile vivere. In cosa sta sbagliando la giunta Raggi?
Non ho un giudizio sulla Raggi. Ma so in cosa sbaglia M5s: è un partito. Dovrebbe essere un movimento. Non basta mettere quella parola nel nome.
E i partiti delle Sinistra, invece, secondo te cosa non vedono del nostro Paese?
Dobbiamo essere radicali. Faccio un esempio. Gli immigrati arrivano nel nostro paese come quelli che saltano dalla finestra di una casa in fiamme. Non hanno scelta. Una persona di sinistra non ha il diritto di parlare di “respingimenti”, non può dire “aiutiamoli a casa loro”. Queste parole sono come le bestemmie in chiesa.
Ascanio, parallelamente al teatro stai già lavorando ad un nuovo film?
No. Ho fatto due film (La pecora nera e Viva la sposa) e sono finito due volte all’ospedale con un infarto isterico. Per adesso mi basta.