La scritta “Siamo cittadini del mondo” campeggia su una lavagna di ardesia, in una classe elementare di Tor Pignattara, Roma. È una foto, pubblicata su facebook, che ritrae una scena ormai familiare nelle nostre scuole primarie: alcuni bambini e poi un artista dai tratti somatici mediorientali. Sono tutti romani, tutti italiani. Cittadini del mondo, appunto. Il profilo social è dell’artista Amir Issaa, 38 anni. Lui a Roma c’è nato, da un padre egiziano arrivato per far fortuna, ma che poi ha avuto problemi con la giustizia, e una madre italiana che ha trasformato le difficoltà economiche in identità umana e professionale, quella dei suoi figli. Di questo e di molto altro ancora, di tutto quello che è Amir oggi, del fatto che è portavoce dei diritti delle cosiddette “seconde generazioni” di immigrati, parla in Vivo per questo, il suo libro autobiografico. Appena uscito per Chiarelettere, Amir lo porta nelle librerie, location cui è poco avvezzo, confessa, abituato com’è ai locali da concerto. Ma Amir, ancora una volta, si mette in gioco con la determinazione che da sempre lo contraddistingue, grazie all’ hip hop, che, attenzione, lui precisa, è un movimento culturale. Facile per lui parlare di Ius soli e delle battaglie contro il razzismo, un problema, dice, che tra i bambini non esiste. Musicista, cantante, è portavoce dell’integrazione e pur avendo lui la cittadinanza italiana, è pronto a combattere per chi non ce l’ha: quasi un milione di giovani italiani senza cittadinanza. È un problema culturale: «Bisogna accettare che non esistono Paesi in cui ci sono persone uguali, con lo stesso colore della pelle, ma bisogna godere di questa diversità, proprio come i bambini che non si pongono questi problemi».
Leggendo della tua infanzia, poi della tua gioventù, del tuo vivere il quartiere, della tua passione per l’hip hop, dove hai trovato, fin da piccolo, il coraggio per cambiare una condizione così disagiata, cercando una strada che ti desse una identità anche professionale?
Nella musica. Il rap è stato la chiave di tutto questo, mi ha dato la possibilità di esprimermi, di raccontare al mondo chi ero, di trovare un lavoro perché mi dà da mangiare da tanti anni. Sono stato fortunato, mi sono trovato subito un alter ego, una vita parallela dove nessuno ti chiede tutte le cose che ti chiede la società. È un mondo a parte, ti crei un nome, che non è il nome vero. Ho trovato il modo di incanalare quello che sentivo nell’arte, trasformandolo in quello che realizzo.
Il “questo” per cui vivi, dal titolo del tuo libro, che cosa è esattamente?
Il titolo è quello di una mia canzone, uscita nel 2004, molto conosciuta tra i ragazzi che seguono l’hip hop, in cui parlavo di quello che mi aveva fatto avvicinare a questo mondo, a questa cultura. Riportare quel titolo nel mio primo libro, a livello simbolico, è stato bello. Con la casa editrice abbiamo cercato un titolo non legato a un solo tema, come per esempio il discorso dello Ius soli o dell’integrazione, ma a tutta la mia vita.
Quando è iniziata la passione per la musica?
Avevo quattordici anni, mia sorella più grande ha portato a casa una cassetta dove c’era una canzone rap, io l’ho sentita e ho iniziato a cantarlo. Da quel giorno non ho smesso.
Il libro inizia con la descrizione di un momento familiare difficile: ci sono due bambini piccoli, uno sfratto imminente, si percepisce disagio, povertà. Naturalmente, parli della tua vita di anni fa, poi le cose come sono andate?
Non sono mai andate benissimo, ma c’è sempre stata mia mamma che ha bilanciato tutto quanto. Mio padre, quando è arrivato in Italia, ha avuto seri problemi con la giustizia, è stato fuori casa, diciamo, per un po’. Mia madre mi ha dato un’educazione, una strada da seguire, dei valori, soprattutto un esempio: si alzava la mattina presto, aveva due lavori e ha fatto tanti sacrifici. Io poi ho incontrato la musica, ma anche mia sorella sta bene, anche se lavora in un ufficio, e fa una vita totalmente diversa dalla mia.
Tu hai detto in una canzone: «Non mi sento discriminato, non mi sento un italiano di serie b, mi sento come tutti gli altri». Ma da piccolo non hai mai subito episodi di bullismo?
No, mai, mi viene da dire che l’unica che mi ha “bullizzato” è stata la vita all’inizio, proprio per quei problemi familiari. È stato l’unico bullismo che ho subito, ma mai dai compagni di scuola.
Sei un punto di riferimento per molti ragazzi che hanno, o hanno avuto, difficoltà di integrazione o problemi con l’ottenere la cittadinanza italiana. Tu da alcuni anni, grazie alla piattaforma Change.org, promuovi la petizione per il riconoscimento dello Ius soli: come sta andando?
Appena lanciata, la petizione è andata molto bene, poi il discorso si è arenato e, a periodi, come adesso, la rilanciamo. Sinceramente, non mi aspetto che passi la legge sullo Ius soli, non sono così illuso. Intanto, la società è andata già un pezzo avanti, quello che sta succedendo lo vediamo tutti quanti. In una qualsiasi scuola elementare o media vediamo che i ragazzi stanno crescendo tutti insieme, cittadinanza o non cittadinanza. È la politica a essersi fermata invece di seguire la società. Quello della cittadinanza lo usa come strumento elettorale, ma poi non fa nulla.
La cecità dei politici, come dici tu, di fronte a un contesto sociale che si trasforma, da cosa dipende?
La cittadinanza non la vedono come una priorità, come un tema importante, i politici sostengono che ci sono altre urgenze. In questo momento è un argomento scomodo anche se capisco che è un tema delicato, buttato in mezzo a un minestrone di altre cose che non c’entrano niente. Troppo facile fare un paragone tra quello che succede in tutto il mondo, basta pensare ai recenti fatti di Londra, e a quelle seconde generazioni, ma è un parallelismo sbagliato che i media usano tutti i giorni, io non ci voglio cadere. Sono certo che questa situazione sta creando solo confusione perché ci sono tantissimi ragazzi di seconde generazioni cattolici, protestanti, anche non religiosi, perché associarlo sempre alla religione islamica? Io, infatti, di religione non parlo proprio mai, non la trovo un argomento interessante.
Quando sei stato insignito dell’attestato di stima, in occasione della candidatura ai David e ai Nastri d’Argento per aver curato la musica del film di Francesco Bruni Scialla!, che cosa ti ha detto l’allora Presidente Napolitano?
Dopo quell’incontro al Quirinale, sì, ho lanciato la petizione e abbiamo invitato anche lui a firmare. Nel discorso di fine anno, in realtà, il Presidente ha parlato del diritto alla cittadinanza ai figli nati da genitori stranieri. Per questo ci piace pensare che lo stimolo eravamo stati io e gli altri ragazzi che si impegnano in questa battaglia, che come me contribuiscono ad arricchire la cultura italiana.
Hai un pubblico nutrito, lo si comprende dal seguito sui social, e adesso incontri la gente nelle librerie. Chi sono le persone interessate alle storie che racconti, anche rappando?
Il mio pubblico è eterogeneo: ragazzi giovanissimi, poi quelli che seguono la mia musica da anni, che vengono ai concerti, ma anche chi ha visto Scialla!. Quelli che condividono i miei messaggi sull’integrazione, contro la discriminazione. A un mio evento, possono venire adolescenti e anziani. I laboratori che faccio di scrittura rap, in questi giorni per promuovere il libro, sono frequentati da bambini che vengono insieme con i nonni: si mettono lì, scrivono le rime e si divertono.
Quale filo segue un tuo spettacolo?
Canto le mie canzoni e trattandosi sempre di storie importanti, profonde, mi piace spiegarle. Spesso racconto anche perché ho scritto quella determinata canzone, faccio lo storytelling. Devo dire che i miei lavori sono nati da un’urgenza, dovevo dire qualcosa. La mia performance si basa sul rap, che è una componente dell’hip hop, un movimento culturale in cui ci si esprime in varie forme: il rap che è quella vocale, poi c’è quella del dipingere, espressiva, artistica con i graffiti e poi quella del corpo che è la danza, la break dance. Ma io faccio rap, il modo nella mia vita per esprimermi.
Hai scritto un centinaio di canzoni. Se si possono definire, quali sono i contenuti più diffusi?
Da quelli più, diciamo, impegnati, ai classici sull’ amore, ma anche canzoni di protesta, di rabbia. Canto della mia ragazza, di mio figlio che ha diciassette anni, dei miei amici.
Da romano a tutti gli effetti, cresciuto proprio nel quartiere di Tor Pignattara, puoi dire come è cambiata questa città? Quali difficoltà ancora perdurano?
Per me, non è cambiata molto. Certo, si parla sempre delle questioni di tutti i giorni: i mezzi pubblici, l’immondizia, il caos, ma, per come l’ho vissuta io, la città è sempre stata “incasinata”. Lo avvertiamo di più in questo momento perché i social network amplificano il disagio, tanto. Sulla cultura però va detto che in passato c’erano più iniziative e si investiva di più, questo sì. Con la nuova amministrazione comunale non siamo ancora riusciti a capire in quale direzione stiamo andando, è un grande punto interrogativo.
Hai iniziato questo giro di presentazioni: a Roma e in tutta Italia…
Porto sempre la mia musica, faccio sentire i miei brani. Il libro è per me un pezzo del percorso che è iniziato con il rap: dalle storie in musica arrivare alla scrittura, dopo tanti anni. Direi che è solo una tecnica diversa.
Ti godi questo momento o pensi già a cosa fare per il futuro?
Sto lavorando a un disco che doveva uscire con il libro, ma poi ho pensato che avrebbe confuso le cose, che l’uno avrebbe azzerato l’altro. Ho preferito concentrarmi sul libro perché è una cosa nuova. C’è già un disco, però, tante canzoni nuove che vorrei far uscire in autunno e poi fare un tour. Portando naturalmente anche il libro dentro al mio live.