Il movimento e le tante tribù: le donne, gli operai, gli studenti, gli autonomi. Una frammentazione di linguaggi e di mondi. E quel vuoto profondo che si spalancò quando finì il sogno politico. Intervista allo storico torinese

Anche se sono 40 anni esatti, l’anniversario del ’77 sta passando sotto silenzio. Per la logica che lo storico Giovanni De Luna definisce “perversa”, anche nelle date vige la regola dell’ubi maior minor cessat e quindi il 50esimo anniversario del ’68, ormai alle porte, schiaccia tutti gli altri. Eppure quell’anno, il ’77, che ha dato il nome addirittura a un movimento, è d’importanza cruciale. «Si consuma allora una rottura tra partiti e movimenti che arriva fino ad oggi», dice De Luna che ha insegnato Storia contemporanea a Torino e che è autore di Le ragioni di un decennio 1969-1979 (Feltrinelli, 2009) un libro «sospeso tra lo sguardo del testimone e il senno di poi dello storico». De Luna infatti era militante di Lotta Continua, la formazione politica scioltasi nel 1976 ma che con il suo quotidiano rimane protagonista del movimento del ’77.
Professor De Luna, si dice che il movimento italiano del ’77 sia un caso unico. O è solo l’ultimo atto del periodo di lotte che inizia con il ’68?
Ma proprio per questo è un caso unico, perché essendo l’epilogo del ’68, ne sottolinea anche la lunghezza, a differenza di altri Paesi. In Francia tutto si risolve nel maggio, negli Stati Uniti addirittura la rivolta è avvenuta prima del ’68, con Berkeley. Il ’77 si distingue anche per altri motivi. Il ’68 appartiene totalmente al Novecento, il ’77 invece ha fortissime caratteristiche postnovecentesche, è qualcosa di autonomo.
Quali sono le sue caratteristiche?
Soprattutto la frammentazione di quello che era stato l’universo del ’68, nel senso che il ’77 non propone più quel mondo, che era molto riconoscibile. Il ’68 aveva una priorità: la centralità operaia, e organizzava i movimenti e la spontaneità attorno al quel criterio. Nel ’77 tutto questo non c’è più. C’erano tante tribu che si affiancavano: le donne, gli studenti, gli operai, gli autonomi.
Questa particolarità del ’77 la si ritrova anche nel linguaggio? Lei nel suo libro parla proprio di «babele di linguaggi».
Sì, il linguaggio del ’68 era un linguaggio unitario e riconoscibile, con pezzi di vecchi linguaggi comunisti legati al mondo operaio più altri nuovi legati alla comunicazione. Tutto era molto “compatto”: dalla dimensione esistenziale alla musica fino agli abiti, direi. Nel ’77 tutto questo….

L’intervista al prof. De Luna prosegue su Left in edicola


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Una laurea in Filosofia (indirizzo psico-pedagogico) a Siena e tanta gavetta nei quotidiani locali tra Toscana ed Emilia Romagna. A Rimini nel 1994 ho fondato insieme ad altri giovani colleghi un quotidiano in coooperativa, il Corriere Romagna che esiste ancora. E poi anni di corsi di scrittura giornalistica nelle scuole per la Provincia di Firenze (fino all'arrivo di Renzi…). A Left, che ho amato fin dall'inizio, ci sono dal 2009. Mi occupo di: scuola, welfare, diritti, ma anche di cultura.