La minaccia dell’islam radicale arriva anche in Oriente e si inserisce nelle rivendicazioni e nelle contraddizioni locali. Nel grande Paese asiatico l’ateismo di Stato consente decise prese di posizione contro le infiltrazioni terroristiche

Il 10 giugno, le autorità dello Xinjiang cinese hanno arrestato una decina di esponenti della minoranza etnica kazaka per «avere avuto stretti legami» con un gruppo di uiguri. L’ha riportato Radio Free Asia, citando fonti locali. I kazaki sono stati arrestati nel distretto di Dushanzi, nella città di Karamay, e sarebbero stati accusati di avere pregato insieme agli uiguri al di fuori dei luoghi consentiti, secondo recenti disposizioni della autorità che considerano «legali» solo alcune moschee.

Pochi giorni prima, sempre secondo Rfa e sempre in Xinjiang, un imam kazako di nome Akmet era morto mentre si trovava agli arresti. La versione ufficiale parla di suicidio.

Durante il mese del Ramadan – dal 26 maggio al 24 giugno – nella prefettura di Hotan, nel sud della regione autonoma, a ogni nucleo familiare uiguro è stato assegnato un funzionario che, per almeno 15 giorni, ha condiviso ogni aspetto della sua vita quotidiana. L’intento era quello di controllare che le famiglie non digiunassero e non pregassero. Nel frattempo, in tutta la regione, i ristoranti erano obbligati a restare aperti e veniva ristretto l’accesso alle moschee.

In maggio sul singaporiano Straits Times si segnalava invece il pericolo ancora presente e concreto posto dalla JI. La sigla sta per Jemaah Islamiyah, gruppo islamista che a quanto pare starebbe tornando in forze dopo essere stato decimato dalle operazioni antiterrorismo che seguirono gli attacchi contro gli hotel Marriott e Ritz Carlton di Jakarta nel 2009. Nello stesso anno l’esercito indonesiano riusciva ad uccidere Noordin Mohamed Top, il leader dell’organizzazione fondata anni prima da un ulema locale, il cui marchio è legato alla strage di Bali del 2002, rivendicata dai qaedisti. Secondo la ricostruzione del giornale, il gruppo starebbe poco a poco ricostruendo una propria struttura. Attualmente potrebbe contare su circa duemila miliziani, più o meno le stesse forze che poteva vantare all’apice della sua notorietà a cavallo del passaggio agli anni 2000 e subito dopo gli attacchi dell’11 settembre. Secondo un rapporto pubblicato in aprile dall’Ipac (Institute for policy analysis of conflict), decine di arresti condotti nel 2014 dimostrano che l’organizzazione ha la sua roccaforte a Java, con ramificazioni in tutto l’arcipelago. Il reclutamento ...

L’articolo di Ernesto Corvetti e Andrea Pira prosegue Left in edicola


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