È una storia minima ma ha dentro tutto quello che serve per interrogare le coscienze. Perché la protagonista è una ragazza, appena diciottenne, che chiamano con un nome di fantasia, Leila, come l’ha chiamata per primo il giornalista Bruno Palermo che questa vicenda l’ha scovata tra le pieghe di una Calabria in cortocircuito.
Leila è sbarcata a Crotone lo scorso 28 giugno, soccorsa dalla nave Bourbon Argos di Medici Senza Frontiere, uno dei “taxi del mare”, come dice qualcuno, che trasportano in gita di piacere quelli che andrebbero “aiutati a casa loro”. Lei, a casa sua, la Somalia, è stata costretta a scappare per non rimanere schiacciata dalla violenza e mentre attraversava la Libia in attesa di trovare la salvezza via mare ha trovato l’orrore: violentata e torturata Leila arriva in Italia con lo sguardo nel vuoto e un figlio in grembo, frutto di quegli stessi stupri che le hanno spento lo sguardo.
Rifiutava il cibo, Leila. E dopo avere partorito si è lasciata morire. L’autopsia dirà quale sia stata la causa finale di un morte che si potrebbe dire per “mancanza di speranza”. Ora, dopo l’autopsia di rito, saranno fissati i funerali. E chissà se quest’altra vittima potrà servire convincere uno, anche uno solo, di questa transumanza di disperazione che oltre al dolore deve sopportare una disaffezione così grande per i lutti degli altri.
Chissà se i vigliacchi capaci di essere forti solo con i deboli non avranno il coraggio di manifestare anche durante il funerale di Leila. In fondo lei semplicemente non ce l’ha fatta, ma “casa loro” e il “viaggio con i taxi del mare” sono gli stessi.
Buon venerdì.