Lo abbiamo detto già molte volte ma lo voglio ribadire un’altra volta: Left ha una linea editoriale atea. Per noi non è una regola stabilita come fosse un dogma da rispettare. È un’esigenza. Una necessità. L’essere noi stessi lo rende necessario. L’essere noi stessi, per noi, significa essere esseri umani, ossia persone che hanno prima di tutto un interesse verso gli altri e non verso qualche entità superiore più o meno onnipotente e imperscrutabile. Lo abbiamo detto e affermato più volte ma lo voglio ribadire di nuovo. Ciò che mi spinge a farlo è una paginetta scritta da Scalfari domenica scorsa sull’Espresso. Se l’è presa di brutto con gli atei. Saremmo, noi atei, più o meno paragonabili alle scimmie perché il nostro io, come quello degli animali, non si contiene. Cosa poi voglia dire non contenersi non è chiaro. Avrebbe necessità di odiare chi non è ateo, il nostro Io. Oltre che di affermare se stesso oltre misura. Addirittura sarebbe un io che non pensa perché non si giudica. Gli atei giusti sarebbero i semi-atei che però non è dato sapere cosa significhi esattamente. Però possiamo dedurre che quello degli umani “veri” sarebbe un io che si contiene e che non è ateo. A tale riguardo Eugenio Scalfari ci propone il suo modello virtuoso che è «Il non credente». Esso è una persona che non crede nelle divinità religiose, il che sarebbe effettiva- mente poco chic, né «nell’assolutismo dogmatico e areligioso dell’ateo» ma «crede in un essere che è trascendente la vita umana». Semplificando, ogni vita, manifestazione qui sulla terra dell’essere, tornerebbe ad esso dopo aver esaurito il suo corso. Un mix tra Parmenide, Heidegger e Platone. Ora non voglio dilungarmi su quanto detto dall’autorevole fondatore del Gruppo editoriale l’Espresso. Voglio solo esercitare il mio «assolutismo da ateo», anche se non militante ma soltanto pensante. Mi piace usare il mio pensiero da primate non abbastanza evoluto per cercare di comprendere. Perché nella paginetta di Scalfari, a parte le battute, ho letto un grossolano errore riguardo agli atei che forse poi nasconde la vera spiegazione del motivo per cui Scalfari non comprende gli atei. «Dopo la morte, per l’ateo, non c’è che il nulla». Non sono d’accordo. Nel senso che io non la penso per niente così. E penso di poter affermare tanta parte di atei non la pensano così. Per l’ateo, dopo la morte, non c’è il nulla. Perché dire “c’è il nulla” significa affermare che c’è ancora un essere senziente, un essere che possa avere la possibilità di apprezzare che c’è qualcosa ossia che “c’è il nulla”. Mi scusi il lettore la sottigliezza ma il punto è proprio questo. L’ateo semplicemente afferma che dopo la morte non c’è niente, il che non significa dire che dopo la morte c’è il nulla. È tutt’altra cosa. Dire che “c’è il nulla” significa dire che “c’è qualcosa”. La morte, per l’ateo, fa parte della vita perché ne è la sua conclusione. La morte non è “l’inizio di qualcosa dove c’è il nulla”. La morte è la fine della realtà biologica umana che porta con sé, in particolare, la fine della realtà psichica. Fintanto che la biologia del corpo è vivente la mente esiste. Quando il corpo muore, con esso muore anche la mente. Essa scompare. Ma questo non vuole dire che c’è il nulla! Semplicemente non c’è più l’esistenza della mente. Potremmo dire c’è una non esistenza ma questa non esistenza può essere affermata solo da altri, non dal soggetto che non esiste più. Perché è l’io che non è più esistente. Non è l’io che determina l’esistenza o meno di se stesso ma più semplicemente è l’esistenza in vita del corpo dal quale l’io è nato per la dinamica di formazione del pensiero alla nascita, - come teorizzato da Massimo Fagioli - che determina l’esistenza della mente. Il pensiero inizia con la nascita e finisce con la morte. Non è il pensiero che determina la propria esistenza o la propria non esistenza. Esso esiste fintantoché è in vita il corpo da cui esso si è generato. Il problema qui è un altro. È comprendere che il pensiero ha la sua origine nella reazione della sostanza cerebrale alla luce. Il pensiero esiste ed ha origine dall’idea di non esistenza del mondo. In questo senso ha in sé pensiero di non esistenza che poi è il primo pensiero umano (si legga a proposito Istinto di morte e conoscenza di Massimo Fagioli, l’Asino d’oro edizioni). La non esistenza del mondo non umano porta con sé il pensiero di esistenza del mondo umano ossia la certezza dell’esistenza di un altro essere umano con cui avere rapporto. La realtà più profonda del pensiero umano è l’esistenza e il rapporto con altri esseri umani. Perché esso è il primo pensiero umano insieme a quello di non esistenza del mondo non umano. Ma il pensiero di non esistenza non è una realtà statica. Perché è compreso nella dinamica della nascita che appunto è una dinamica. L’intelligenza dell’essere umano sta nella capacità di immaginare e creare qualcosa di non ancora esistente. Questo comprende l’annullamento, la sparizione dell’esistente per permettere la comparsa, la creazione del nuovo. La creazione del nuovo è una possibilità esclusivamente umana. Nessun animale crea cose nuove. Dio è il nome dato dagli esseri umani alla alienazione di questa possibilità umana di creare il nuovo. Allora la creatività umana diventa la creatività di dio. Fino ad arrivare a dire che l’amore sarebbe una caratteristica della divinità e non degli esseri umani. Oppure a non capire che gli atei non odiano nessuno. [su_divider text="In edicola " style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale di Matteo Fago è tratto dal numero di Left in edicola

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Lo abbiamo detto già molte volte ma lo voglio ribadire un’altra volta: Left ha una linea editoriale atea. Per noi non è una regola stabilita come fosse un dogma da rispettare. È un’esigenza. Una necessità.

L’essere noi stessi lo rende necessario. L’essere noi stessi, per noi, significa essere esseri umani, ossia persone che hanno prima di tutto un interesse verso gli altri e non verso qualche entità superiore più o meno onnipotente e imperscrutabile. Lo abbiamo detto e affermato più volte ma lo voglio ribadire di nuovo.

Ciò che mi spinge a farlo è una paginetta scritta da Scalfari domenica scorsa sull’Espresso.

Se l’è presa di brutto con gli atei. Saremmo, noi atei, più o meno paragonabili alle scimmie perché il nostro io, come quello degli animali, non si contiene. Cosa poi voglia dire non contenersi non è chiaro. Avrebbe necessità di odiare chi non è ateo, il nostro Io. Oltre che di affermare se stesso oltre misura. Addirittura sarebbe un io che non pensa perché non si giudica. Gli atei giusti sarebbero i semi-atei che però non è dato sapere cosa significhi esattamente. Però possiamo dedurre che quello degli umani “veri” sarebbe un io che si contiene e che non è ateo.

A tale riguardo Eugenio Scalfari ci propone il suo modello virtuoso che è «Il non credente». Esso è una persona che non crede nelle divinità religiose, il che sarebbe effettiva- mente poco chic, né «nell’assolutismo dogmatico e areligioso dell’ateo» ma «crede in un essere che è trascendente la vita umana». Semplificando, ogni vita, manifestazione qui sulla terra dell’essere, tornerebbe ad esso dopo aver esaurito il suo corso. Un mix tra Parmenide, Heidegger e Platone.

Ora non voglio dilungarmi su quanto detto dall’autorevole fondatore del Gruppo editoriale l’Espresso. Voglio solo esercitare il mio «assolutismo da ateo», anche se non militante ma soltanto pensante. Mi piace usare il mio pensiero da primate non abbastanza evoluto per cercare di comprendere.

Perché nella paginetta di Scalfari, a parte le battute, ho letto un grossolano errore riguardo agli atei che forse poi nasconde la vera spiegazione del motivo per cui Scalfari non comprende gli atei.

«Dopo la morte, per l’ateo, non c’è che il nulla».

Non sono d’accordo. Nel senso che io non la penso per niente così. E penso di poter affermare tanta parte di atei non la pensano così. Per l’ateo, dopo la morte, non c’è il nulla. Perché dire “c’è il nulla” significa affermare che c’è ancora un essere senziente, un essere che possa avere la possibilità di apprezzare che c’è qualcosa ossia che “c’è il nulla”. Mi scusi il lettore la sottigliezza ma il punto è proprio questo.

L’ateo semplicemente afferma che dopo la morte non c’è niente, il che non significa dire che dopo la morte c’è il nulla. È tutt’altra cosa. Dire che “c’è il nulla” significa dire che “c’è qualcosa”.

La morte, per l’ateo, fa parte della vita perché ne è la sua conclusione. La morte non è “l’inizio di qualcosa dove c’è il nulla”. La morte è la fine della realtà biologica umana che porta con sé, in particolare, la fine della realtà psichica.

Fintanto che la biologia del corpo è vivente la mente esiste. Quando il corpo muore, con esso muore anche la mente. Essa scompare. Ma questo non vuole dire che c’è il nulla! Semplicemente non c’è più l’esistenza della mente. Potremmo dire c’è una non esistenza ma questa non esistenza può essere affermata solo da altri, non dal soggetto che non esiste più. Perché è l’io che non è più esistente.

Non è l’io che determina l’esistenza o meno di se stesso ma più semplicemente è l’esistenza in vita del corpo dal quale l’io è nato per la dinamica di formazione del pensiero alla nascita, – come teorizzato da Massimo Fagioli – che determina l’esistenza della mente.

Il pensiero inizia con la nascita e finisce con la morte. Non è il pensiero che determina la propria esistenza o la propria non esistenza. Esso esiste fintantoché è in vita il corpo da cui esso si è generato.

Il problema qui è un altro. È comprendere che il pensiero ha la sua origine nella reazione della sostanza cerebrale alla luce. Il pensiero esiste ed ha origine dall’idea di non esistenza del mondo. In questo senso ha in sé pensiero di non esistenza che poi è il primo pensiero umano (si legga a proposito Istinto di morte e conoscenza di Massimo Fagioli, l’Asino d’oro edizioni).

La non esistenza del mondo non umano porta con sé il pensiero di esistenza del mondo umano ossia la certezza dell’esistenza di un altro essere umano con cui avere rapporto.

La realtà più profonda del pensiero umano è l’esistenza e il rapporto con altri esseri umani. Perché esso è il primo pensiero umano insieme a quello di non esistenza del mondo non umano.

Ma il pensiero di non esistenza non è una realtà statica. Perché è compreso nella dinamica della nascita che appunto è una dinamica.

L’intelligenza dell’essere umano sta nella capacità di immaginare e creare qualcosa di non ancora esistente. Questo comprende l’annullamento, la sparizione dell’esistente per permettere la comparsa, la creazione del nuovo.

La creazione del nuovo è una possibilità esclusivamente umana. Nessun animale crea cose nuove. Dio è il nome dato dagli esseri umani alla alienazione di questa possibilità umana di creare il nuovo. Allora la creatività umana diventa la creatività di dio. Fino ad arrivare a dire che l’amore sarebbe una caratteristica della divinità e non degli esseri umani. Oppure a non capire che gli atei non odiano nessuno.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto dal numero di Left in edicola


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