Secondo Meir Hatina, autore de Il martirio nell’Islam moderno non si possono definire kamikaze perché non compiono attentati in un contesto di guerra con lo scopo di colpire al cuore il sistema militare altrui. I fondamentalisti musulmani uccidono suicidandosi in nome di una fantomatica ricompensa nell’al di là. Devoti di un dio assoluto perdono ogni rapporto con l’umano, diventando completamente anaffettivi, lucidi, crudeli, come abbiamo letto ne L’origine del terrore. Dopo l’approfondimento psichiatrico ora con il professor Meir Hatina vorremmo analizzare alcuni aspetti storici del jihaidismo e della sua “evoluzione”.
Nel libro Il martirio nell’Islam moderno, pubblicato in Italia da ObarraO, il docente di studi islamici e mediorientali della Hebron University indaga l’idea di martirio comune a tutti e tre i monoteismi. «L’ebraismo, nel periodo maccabeo, adottò il concetto di una lotta contro il male in nome del monoteismo. La cultura greca introdusse in questa ideologia una dimensione particolare con l’immagine del filosofo ascetico». Poi «il Cristianesimo creò il modello dell’uomo di fede guerriero». La figura del martire, dunque, è propria del monoteismo. Nella storia dell’islam ha subito una metamorfosi: se nell’antichità era una figura isolata, in tempi recenti – vedi l’esempio di Hamas – ha guadagnato consenso sociale nell’ambito della lotta all’oppressione israeliana, corroborato da risarcimenti alle famiglie. Ma è soprattutto con Osama bin Laden, agli inizi degli anni Novanta, che è avvenuto un salto.
Professor Hatina il concetto di jihad globale è stato inaugurato da al-Qaeda?
Nei primi anni Novanta ha introdotto una nuova dimensione nell’islam moderno, quello del jihad che attraversa i confini geografici e politici ed è diretto sia contro l’Occidente che contro il mondo arabo-musulmano. Parlo del jihad transnazionale accompagnato dall’intensificazione della violenza e santificato dall’ethos del martirio. Gli attacchi spettacolarizzati di al-Qaeda in tutto il mondo hanno catturato l’immaginazione dei musulmani, ma non hanno portato l’organizzazione a guadagnare tutta la scena. Era e rimane una minoranza ideologica nello spettro islamico, che continua a essere più orientato verso movimenti comunitari come I Fratelli musulmani o Al-Nahda (in Tunisia). L’incapacità di al-Qaeda di diventare davvero egemone ha portato alla radicalizzazione dei suoi ranghi e all’ascesa di un’ala guidata da Abu Mus’ab al-Zarqawi in Iraq e deli’Isis.
Con l’emergere di Isis cosa è cambiato?
L’Isis è stato alimentato dalla lotta contro le forze americane in Iraq, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein nel 2003 e le fratture delle relazioni sunnite-sciite. Ma ha costruito la sua posizione principalmente grazie alla debolezza di Bagdad e di Damasco (dopo lo scoppio della guerra civile nel 2011). L’Isis ha adottato una fredda crudeltà, non solo negli attacchi suicidi a musulmani e non, ma anche nelle esecuzioni pubbliche di prigionieri e civili. Anche l’Isis ha cercato di fondare istituzioni di governo, di diritto e di istruzione in tutti i territori sotto il proprio controllo. La rete virtuale di Isis, in cui ha dimostrato capacità impressionanti, era strettamente intrecciata a reti fisiche di presenza e di governance. L’organizzazione è riuscita a terrorizzare i rivali locali e ha costretto l’Occidente a una posizione difensiva, ma come è accaduto per al-Qaeda, rimane una minoranza ideologica, incapace di allargare i confini della propria presenza in alcune parti dell’Iraq e della Siria, zone in cui è attualmente quasi sconfitta. Anche se la sua ideologia continuerà ad attrarre seguaci, il futuro presto ci dirà cosa ne sarà del sedicente Stato islamico.
I bambini, le donne o le persone malate non erano mai state un target. Attacchi terroristici come quello avvenuto al concerto di Ariana Grande dove hanno perso la vita più di venti adolescenti, ci dicono che qualcosa è drammaticamente mutato.
La radicalizzazione dell’Islam durante il XX secolo ha posto una nuova enfasi sul ruolo del credente, a cui chiede di diventare agente attivo nella missione di realizzare il regno di dio. Per i musulmani radicalizzati di oggi, il vero uomo di fede deve percepire il mondo come arena di lotta e la propria vita come temporanea. Deve combattere a morte contro un regime corrotto e tirannico. Ma il suo compito principale è attaccare e uccidere senza mettersi a rischio deliberatamente. Sì, è vero, i civili non erano un target. Questi due parametri – la morte circostanziata del miliziano e la desistenza nei confronti dei civili – facevano una ideologia del martirio incardinata su un divieto teologico dell’auto-immolazione e dell’uccisione di civili. Questi parametri segnano uno spartiacque tra i primi gruppi radicalizzati degli anni Settanta e Ottanta rispetto a quelli di al-Qaeda e dell’Isis dagli anni Novanta in poi, che hanno sostituito il cauto sacrificio di sé con un jihad transnazionale che non fa alcuna distinzione tra soldati, prigionieri e civili. Già nel 1998, bin Laden dichiarò che non esistevano civili innocenti: «Sono tutti soldati in guerra>>. I’Isis ha fatto un passo ulteriore, prendendo di mira anche i musulmani che non si oppongono ai regimi “infedeli” nei propri Paesi.
«Il terrore è una fine in sé per Isis, il cui unico scopo è quello di infliggere dolore e istigare la paura», ha scritto Kenan Malik dopo l’attacco di Manchester. Autore di Il multiculturalismo e i suoi critici (Nessun dogma) rileva forti analogie fra la mente dei jihadisti e quella di mass murders americani come, ad esempio, Dylann Roof. Cosa ne pensa?
Non penso che la violenza e l’intimidazione siano l’unica finalità dell’Isis. Sono strumenti centrali per imporre una certa immagine dell’islam. Gli serve per differenziare l’Isis da altre correnti e movimenti islamici e proiettare un’idea di islam potente sulla scena internazionale. Questo tipo di immagine dell’islam appariva già erosa dopo il colonialismo europeo, la disintegrazione dell’impero ottomano e dopo la prima guerra mondiale. L’Isis sta conducendo una lotta moralistica e una guerra psicologica non meno che politica e cerca di ridefinire i criteri del vero credente e di chi non lo sarebbe. L’aver proclamato la fondazione di un califfato islamico nel 2014 indica un programma per imporre una visione ideale in una realtà concreta, non si limita a terrorizzare i nemici.
Possiamo dire tuttavia che il jihad globale rimane ai margini del consenso islamico?
In larga misura è così. Una prospettiva pan-islamica è irrealistica, astrattamente utopica e non rappresenta il punto focale del discorso islamico. Inoltre la violenza globale non produce concrete conseguenze politiche o una trasformazione radicale della politica statale. In definitiva, i movimenti radicali rappresentano una “cultura dell’enclave” che necessita costantemente di compattare la propria coesione interna di fronte a un ambiente ostile, lo fa con diktat violenti e adottando un approccio puritano e dogmatico.