Da Regeni al Codice per le Ong: in Italia è in corso una pericolosa mutazione culturale

La campagna “Rimandiamo l’ambasciatore al Cairo” ha vinto. Progettata e portata avanti per sostenere la decisione presa dal governo italiano già mesi fa, è stata alimentata da decine di editoriali, articoli, interviste e interventi di importanti parlamentari. Una “potenza di fuoco” impressionante.

Ciò che inizialmente mi ha sorpreso, ma che adesso trovo il normale proseguimento di quella campagna, è l’accanimento contro Giulio Regeni e la sua famiglia, il fango che trasuda dalla nuova serie di articoli pubblicati dopo che il ministro degli Esteri Alfano, nella calura di un pomeriggio pre-ferragostano, aveva annunciato il ritorno dell’ambasciatore.
Nel suo primo sviluppo, la campagna “Rimandiamo l’ambasciatore al Cairo” aveva persino un ché di signorile: si portava avanti l’argomento dell’interesse nazionale, includendo in esso anche la ricerca della verità per Giulio Regeni che sarebbe stata favorita dall’arrivo al Cairo dell’ambasciatore Cantini. Un’ipotesi che, peraltro, continuo a ritenere irrealistica: basti osservare le reazioni compiaciute ed entusiastiche del Cairo, il senso di vittoria per il ritorno a relazioni normali.

Negli ultimi giorni, invece, sono stati raggiunti incredibili picchi di becerume. Occorre continuare a giustificare, ora a posteriori, la decisione del 14 agosto. Solo che, ecco la novità, Giulio Regeni non fa più parte dell’interesse nazionale. Gli è nemico, come gli era nemico in vita e come oggi gli è nemica la sua famiglia. Articoli e commenti pieni di livore, cinismo e menzogne scritte sapendo che di esse si tratta (ma magari a ripeterle ossessivamente qualcuno si convincerà che si tratta della verità) ripropongono la narrazione del Giulio spia usato da un’università infiltrata dai servizi britannici e manipolato da una docente fondamentalista islamica, contro gli interessi italiani.

Se è grave scrivere senza informarsi, trovo persino più grave rinunciare a quello che dovrebbe essere un naturale e istintivo senso di compassione, di immedesimazione nel dolore altrui.
Questo Paese, o almeno parte di esso, è in preda a un profondo mutamento culturale e morale: la storia di Giulio Regeni – così come quella delle Ong, a fine aprile passate il 48 ore da “angeli del mare” ad “angeli del male” – ci parlano dell’incapacità di riconoscere il bene e il bello delle azioni. Della facilità con cui si possono infangare, sporcare, diffamare.
Della decisione del 14 agosto resta poco da dire.

Occorre entrare in buoni rapporti col generale Khalifa Haftar. Dopo Serraj e le tribù della frontiera sud, è la “terza Libia” che ancora ci sfugge per poter portare avanti senza intoppi né ritardi la collaborazione con quel paese al fine d’impedire le partenze di migranti e richiedenti asilo verso l’Italia.

Sarebbe onesto se il governo Gentiloni, quando riferirà in parlamento, dicesse che l’ambasciata del Cairo torna a ranghi completi per ragioni d’interesse nazionale (la Libia, appunto; e poi il petrolio, il terrorismo, il turismo, eccetera). E se ammettesse quello che come abbiamo visto scrivono in tanti: che la difesa dei diritti umani non rientra in quell’interesse nazionale, neanche quando si tratta di quelli di un cittadino italiano ucciso in modo barbaro.
Per non parlare dei tanti egiziani che ogni anno fanno la stessa fine.

L’articolo del portavoce di Amnesty international Italia, Riccardo Noury, è tratto dal numero di Left in edicola


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